Chiusa l’epoca del Goldoni incipriato e mascherino, i testi del grande autore settecentesco, vero padre del teatro moderno, sono divenuti campo d’azione e di ricerca. Soprattutto i titoli che maggiormente sviluppano la potenza barocca di personaggi e idee sulla via del grande teatro «borghese». E non a caso hanno segnato il lavoro dei tre ultimi nostri maestri Strehler, Castri e Ronconi, che con Goldoni ha addirittura iniziato a fare regia. Approdando poi con uno straordinario Massimo Popolizio protagonista, all’inquietante doppia personalità de I due gemelli veneziani (unico precedente illustre nella modernità Alberto Lionello diretto da Luigi Squarzina). Ora quel testo appare, in una vasta coproduzione di grandi teatri, ad opera di Valter Malosti (in questi giorni all’Astra di torino, dopo il passaggio al Metastasio). Il regista, alla ricerca di una maggiore «contemporaneità» della vicenda fruga, con la drammaturga Angela Dematté, nelle radici «in maschera» dell’intreccio, ovvero il protagonismo di due fratelli gemelli, uno tontolone l’altro civile e raffinato, che apparendo contemporaneamente senza saperlo a quello che si rivela un matrimonio d’interesse ben «combinato», seminano il panico tra fidanzate, pretendenti e famiglie avide. Nella cornice di una Verona di oscurità velate e alterne (approntate da Nicholas Bovey), anche vagamente thrilling. Una visione inedita per quell’intreccio, che risale fino ai lontani Menecmi plautini.

L’ALTRA SORPRESA è l’apparizione, quasi a controcanto, di un Pulcinella scatenato (Marco Manchisi) che dà focosità meridionale alla figura di un Arlecchino. Bravo ed efficace protagonista è Marco Foschi, che in rapide entrate e uscite dà corpo e tempra a quelle due strane creature; così come Danilo Nigrelli offre l’ambiguità lasciva del faccendiere/precettore, falso amico di casa, e di tutti. E se tra le signore vince la grinta di Irene Petris, bisogna dare atto a tutti di una grande coerenza di gioco collettivo. Malosti da parte sua non si nega qualche innesto curioso, come la fanciulla protagonista dell’equivoco, che si concede anche una sequenza di rock, forse mimando una doccia chiarificatrice. L’effetto globale rimane alla fine un po’ oscuro, perché più che del teatro barocco o di un amabile goldonismo, la via pare piuttosto quella della tragedia elisabettiana più truce e oscura.