«Come tanti della mia generazione anch’io ho creduto, negli anni intorno alla guerra e dopo, in un’Europa unita politicamente nella ragione e nella parità delle lingue e delle culture. E ci credo ancora». Leggere queste parole all’inizio di un’indagine rigorosa e di alta filologia – Gianfranco Folena, L’italiano in Europa Esperienze linguistiche del Settecento – ci può stupire, ma è proprio questa scelta di campo, così vibrante e appassionata, ad animare tutto il libro, a farlo così intenso e così vivo: comprendere le personalità più originali della cultura e della letteratura dell’Italia, nel Settecento, è possibile solo nel grande contesto europeo e nel comune spirito dell’Illuminismo, e gli scrittori europei, a loro volta, amano scrivere in italiano.
Questa raccolta di saggi, apparsa nel 1983 presso Einaudi, e ora opportunamente riproposta (seconda ed. riveduta e corretta a cura di Daniela Goldin Folena, Franco Cesati Editore, pp. 520, € 38,00) è forse il libro più bello di Folena, da mettere accanto a Lingue e culture del Veneto medievale, Il linguaggio del caos, Volgarizzare e tradurre. Un insieme di opere che, per la rilevanza dei temi trattati e per la capacità di portare l’analisi, attraverso la storia della lingua e la stilistica, nel cuore dei testi, fa di lui uno dei critici più significativi della seconda metà del Novecento.
Con il primo saggio, Il rinnovamento linguistico del Settecento italiano, siamo già in medias res. Il panorama è quello dell’indiscutibile egemonia del francese, di un’Europe gallicisée, ma l’Italia, pur essendo indubbiamente una provincia spirituale della Francia, è piena di fermenti, di iniziative, di riforme. Scrive suggestivamente Melchiorre Cesarotti, cogliendo insieme il mutamento linguistico e quello della società: «il gusto del ragionamento e delle notizie utili, diffuso per le nazioni, tinse di nuovi colori il frasario general dello stile, fece che le immagini servissero di veste all’idee, e rese l’eloquenza più atta a propagar fra il popolo il sapor della dottrina e le viste della ragione». Compare una nuova figura: accanto a «letterato» ed «erudito», che perdono terreno, si impone il termine «filosofo». Significativo quello che scrive Pietro Verri: «gli uomini che di professione fanno il letterato, gli ho trovati tanto pieni di pedantismo …: altra cosa è un uomo, altra un letterato». Nel tumultuoso processo di questo rinnovamento Folena coglie con grande finezza il carattere e lo stile delle varie personalità: Ludovico Antonio Muratori, con la sua cartesiana rivendicazione del buon gusto, anche nello scrivere erudito; Pietro Verri, principe della nuova scienza economica e protagonista della grande impresa giornalistica del «Caffè»; Cesare Beccaria, innovatore per l’uso costante e spesso tecnicizzato di regionalismi lombardi, «ma non di rado incline a movenze oratorie prive di limpida concretezza»; Antonio Genovesi, potentemente astratto, nella sua visione globale, più che empirica, dei processi economici. Ferdinando Galiani, capace di esprimere le teorie economiche in forma cristallina, e di conseguenza critico, per i loro eccessivi tecnicismi, degli economisti: «li mette in berlina col suo squisito intuito stilistico e la sua straordinaria capacità mimetica».
Un ruolo privilegiato, nel libro, ha l’italiano come lingua per musica: nel melodramma, con i testi di Scipione Maffei, di Cesarotti, di Vincenzo Monti, con le cantate di Vivaldi, e con quel capolavoro che è La serva padrona di Giovan Battista Pergolesi. Il libretto, di Gennaro Antonio Federico, è un meccanismo perfetto, ha una grande funzionalità scenica e musicale «proprio col suo italiano spesso approssimativo e trasandato ma vivacemente colloquiale, che sacrifica grammatica e semantica al ritmo e alla deissi o “gesto” verbale». Serpina, questa serva che diventa padrona, che è capace di una costante miscela di sentimentalismo e di calcolo razionale, calca la scena con gesti e parole di concitazione e d’imperio. C’è in lei anche una sottile nota di compiacimento, che la porta spesso a nominarsi in terza persona, con «quel volontaristico, autoritariamente oggettivo e impersonale “Serpina vuol così”».
Il panorama teatrale settecentesco è però dominato dalla costellazione delle geniali commedie di Goldoni, che la raffinata analisi di Folena, che dedica loro ben quattro saggi, illumina in modo straordinario. La lingua goldoniana d’uso italiano è sostanzialmente lingua teatrale, fantasma scenico che ha spesso la vivezza del parlato, accogliendo in copia larghissima venetismi, regionalismi «lombardi» e francesismi. Ma la sua arte è sostanzialmente «dialettale», nel senso che il veneziano, nella sua bivalenza di lingua e dialetto, diventa lingua nel grado totale della rappresentazione. L’itinerario goldoniano è complesso e variegato: Il servitore di due padroni è il suo più vivo, scoperto contatto con la tecnica e il linguaggio della commedia dell’arte. La macchina scenica si nutre degli elementi linguistici dell’improvviso: i lazzi, le rapide sticomitie giocose, i monologhi farseschi. Ma la lingua dell’improvviso poi si allarga e si arricchisce diversamente nella dimensione reale del dialogo, questo nei Rusteghi, e soprattutto nel Campiello e nelle Baruffe, dove è còlto, come in uno specchio magico, il «concerto» armonioso, il caos colorato della vita associativa.
L’ultima parte del libro è dedicata al bilinguismo italiano-francese di Voltaire, di Goldoni e all’italiano di Mozart. In Voltaire c’è un gusto vivissimo e pittoresco del pastiche plurilingue, che si esprime anche attraverso un «italiano bastardo», di fondo galante e colloquiale. Il segreto del suo stile «consiste nella discontinuità del “tempo”, in una maniera epigrammatica ed accelerata di ragionare, nella facoltà di fare imprevisti e rapidi accostamenti». Il più grande letterato di un momento europeo, il rococò, trova così la sua misura nella poliedrica tensione intellettuale di fronte alla vita, che è un vortice di arbitraria relatività. Per Goldoni il francese è soprattutto una forma orale, una lingua di conversazione, e in certo modo un meccanismo dell’improvvisazione. È un francese perfettamente sincronico, che assorbe e neutralizza ogni venatura letteraria, è intimamente dialogico, soprattutto nei Mémoires, dove «sembra ritrovare nell’ultima vecchiaia la forma interna, la gaieté e la plaisanterie del suo veneziano». Il caso più straordinario di plurilinguismo è quello del meraviglioso epistolario di Mozart, che Folena analizza con quell’acutezza che può avere solo chi ha penetrato a fondo i suoi movimenti e ne è profondamente affascinato. Il suo italiano è certo una lingua imperfetta, avvolta in una deliziosa barbarie, ma personalissima e vivacemente espressiva, e interviene in un vortice linguistico che mescola tedesco, talora con dialetto svevo e salisburghese, francese e anche latino. Così alla sorella Nannerl: «Je say Dir … nicht mehr di scribere». L’invenzione linguistica non è solo un gioco, ma diventa espressione della sua miracolosa naturalezza e spontaneità, anche perché tra l’espressione verbale e quella musicale esiste un profondo legame. Mozart è per Folena, che lo dice con una certa emozione, un momento culminante: «è un concerto, confronto e interazione di lingue e di culture su scala fino ad allora inusitata e forse mai più ripetuta. Un’Europa culturalmente una come non mai, né prima né poi».