«Non sapevamo». Non lo sapeva Franco Bernabè, che al senato ieri ha spiegato di aver avuto conoscenza solo «dalla lettura dei comunicati stampa» che Telefonica era nottetempo diventata l’azionista di riferimento della «sua» Telecom Italia, società di cui è presidente esecutivo. Non lo sapeva Antonio Catricalà, vice ministro dello sviluppo economico con delega alle telecomunicazioni, che anche lui ai senatori ha assicurato che nessuno del governo era stato avvertito. Mentre «almeno il premier avrebbe dovuto saperlo – ha aggiunto – perché Telecom è un asset strategico soprattutto per quanto riguarda la rete».
La rete, la cui proprietà non è stata scorporata da Telecom, continua a rappresentare il vero valore di un’azienda pesantemente indebitata. Tant’è che difficilmente gli spagnoli – che con poco più di 800 milioni (la metà in azioni) si sono assicurato il controllo di un gruppo che capitalizza 11 miliardi – saranno disponibili a rinunciarvi. Malgrado la grande indignazione di tutti i partiti e l’agitazione, fuori tempo massimo, del governo. Ancora a New York, il presidente del Consiglio Enrico Letta ha confermato ieri la prudenza iniziale, ribadendo che «siamo nel mercato aperto europeo e i capitali non hanno passaporto», ma ha aggiunto un pensiero evidentemente dedicato alla proprietà della rete: «Ci sono degli asset strategici, ne siamo molto consapevoli e ne seguiremo lo sviluppo».

Nel frattempo, a Roma, la borsa bocciava l’operazione-fuga decisa dai tre azionisti nazionali della Telco (Generali, Mediobanca e Intesa) facendo pagare il 4,6% al titolo Telecom al termine degli scambi, e così confermando che dagli spagnoli non c’è da attendersi investimenti. Del resto lo ha detto anche Bernabè, e proprio in apertura di mercati: Telefonica ha gli stessi problemi di Telecom, alto debito e contrazione del mercato nazionale. Le due società peraltro sono concorrenti sui mercati brasiliano e argentino, circostanza che già prima della crescita degli spagnoli in Telco «ha generato oggettive complessità di governance». Quanto allo scorporo della rete, Bernabè non ne è diventato all’improvviso un sostenitore. Anzi, ha sottolineato che i tempi dell’operazione, che coinvolge la Cassa depositi e prestiti (cioè i risparmi delle famiglie) non sono brevi. E soprattutto la rete, ha chiarito il presidente di Telecom ai senatori, ha bisogno di forti investimenti, perché l’Italia è già parecchio in ritardo rispetto agli altri paesi europei nel passaggio dal rame alla fibra e alla banda ultralarga. Invece la prospettiva di Telecom è quella di vedere ridotti ulteriormente i suoi margini di investimento. È alle viste un downgrade del debito, ha detto Bernabè, a meno di non ritirarsi dai mercati sudamericani (che sono però gli unici a garantire redditività) o procedere a un aumento del capitale. L’esatto opposto di quello che hanno fatto gli azionisti italiani nella fatale notte tra lunedì e martedì.

Mentre Bernabè informava i senatori (continuerà domani, oggi è il turno del presidente della Consob) e direttamente il capo dello stato, il Comitato parlamentare sui servizi segreti lanciava un allarme per la sicurezza nazionale. Sia il presidente leghista del Copasir Stucchi, sia il vicepresidente del Pd Esposito, hanno sottolineato il carattere «particolarmente sensibile e delicato delle reti di trasmissioni dati» chiamando a riferire sui rischi il direttore del Dis Massolo. Letta invece riferirà martedì mattina alla camera, una semplice informativa che non prevede un voto dell’aula, diversamente da quanto avevano chiesto i 5 Stelle, Sel e la Lega (contrarie le larghe intese, la presidente Boldrini ha deciso per la soluzione meno impegnativa). A questo punto, secondo il vice ministro Catricalà, l’eventuale rischio per la sicurezza è persino benvenuto, perché consentirebbe al governo di tornare in campo sventolando l’interesse nazionale: «La soluzione sarebbe anche più facile».

Il governo, cioè, si prepara nel prossimo consiglio dei ministri a dare il via libera al regolamento di attuazione della «golden share» previsto da una legge di un anno e mezzo fa. Legge dettata dall’Europa ma in Italia rimasta nei cassetti perché toccare la rete vuol dire toccare la vera ricchezza di una società piena di debiti e, come dice Letta, affidata al mercato. In mancanza dello scorporo, se quel regolamento fosse stato approvato – come doveva – entro 120 giorni dal maggio 2012, il presidente del Consiglio avrebbe dovuto essere avvertito dell’operazione Telefonica in anticipo. E avrebbe potuto esercitare il diritto di veto. Adesso il governo può solo intervenire in ritardo. E non è detto che Telefonica resterà a guardare.