Ci sono differenze non ignorabili fra tradurre un libro, ritradurlo o ritradurre un classico che da molto tempo si è insediato stabilmente in una cultura e ha già conosciuto molte o moltissime versioni. Se tradurre un testo equivale a creare la possibilità che diventi, in un contesto altro da quello d’origine, portatore di un orizzonte d’attesa che estende la sfera della cultura testuale di un paese o di un’area linguistica, ritradurlo significa sottrarlo a quell’orizzonte, rendendolo disponibile per altre attese, per altri sviluppi della sua ricezione o addirittura per altri usi (ideologici, politici, morali, educativi, e così via). Ma ritradurre un classico già molte volte proposto in un’altra lingua il quale, magari, ha già prodotto, nel contesto d’arrivo, tanti importanti risultati – riscritture, analisi critiche, ricerche – è tutt’altra cosa: perché se la sua ritraduzione non è una mera operazione editoriale o commerciale pone a chi se ne fa carico il problema di riprendere il filo di quella storia e di estenderla in una direzione o in un’altra.

Le vicende italiane dei Dolori del giovane Werther di Goethe hanno inizio quasi subito con la riscrittura foscoliana del romanzo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis e nel corso del XX secolo hanno prodotto, fra l’altro, almeno due capolavori critici: il saggio di Ladislao Mittner, Il Werther, romanzo antiwertheriano e quello di Giuliano Baioni che, a partire dal 1998, ha sostituito proprio il testo del suo maestro come introduzione alla vecchia traduzione di Alberto Spaini apparsa per decenni da Einaudi.

Un effetto straniante
La stessa Einaudi pubblica, finalmente, I dolori del giovane Werther (postfazione di Luigi Forte, pp. 136, € 17,00) in una nuova traduzione, che è al tempo stesso un omaggio a Enrico Ganni, il grande traduttore che l’ha realizzata, come ultimo dei suoi lavori, subito prima dell’improvvisa scomparsa.

La nuova versione, com’era prevedibile perfetta, ha rispetto a tutte quelle che l’hanno preceduta, due meriti i quali, tuttavia, non sono immediatamente evidenti: non lo sono perché essi non sono intrinseci alla qualità, altissima, del risultato, ma al contesto in cui tale risultato si inserisce.

Ganni aveva infatti tradotto nel 2018 l’autobiografia Poesia e verità, lo scritto che Goethe compose nel corso degli ultimi due decenni della sua vita allo scopo di raccontare le vicende della propria esistenza dall’infanzia fino alla partenza per Weimar e per la corte del duca Karl August. Quel capolavoro della scrittura autobiografica dedicava nella sua terza parte non poche pagine alle vicende che avevano preceduto, accompagnato e seguito la nascita del Werther e assumeva, nei confronti del romanzo giovanile, una pensosa prospettiva critica, giudicandone meriti e demeriti, ma anche indicando gli accadimenti che avevano fornito l’ispirazione alla storia.

La traduzione che del romanzo fa Enrico Ganni si deve leggere anche, e forse soprattutto, come una necessaria appendice a quella monumentale premessa, una sorta di indispensabile complemento per il lettore avvertito che voglia rileggere il romanzo nella cornice della meno nota autobiografia e alla luce del commento dal suo stesso autore. Ma in questo modo è anche la traduzione stessa ad avvantaggiarsi, poiché assume l’ottica autoriale come la sua propria e si assicura un angolo visuale pressoché indiscutibile per le scelte che compie.

Di queste ultime la più radicale – che è anche il secondo grande merito del lavoro di Ganni – è quella di offrire la traduzione della prima versione del romanzo, quella del 1774, senza nessuna delle integrazioni e delle modifiche apportate in seguito da Goethe, preferendola alla seconda edizione del 1787, che costituisce la base comune delle tante traduzioni correnti. In aggiunta a ciò, Ganni ha rinunciato a qualsiasi apparato introduttivo o nota di commento. Il testo goethiano viene presentato al lettore nella sua forma originaria ovvero quella che i primi lettori si trovarono improvvisamente per le mani. Ne deriva un fortissimo effetto di straniamento.

La storia della fortuna del romanzo viene scavalcata all’indietro e il lettore che, per quanto ingenuo, molto sa o può sapere su di esso viene invitato ad assumere un’ottica impregiudicata e aperta alla sorpresa di una riscoperta. L’operazione, nel suo complesso, rimanda in ogni caso a Goethe: al giovane e geniale protagonista dello «Sturm und Drang» che dà forma al suo primo scritto narrativo e al vecchio, celebrato scrittore che riguardando ai suoi anni giovanili restituisce al lettore dell’autobiografia il racconto della sua genesi.

Così, nella nuova traduzione di uno dei più famosi romanzi della letteratura europea, il lettore non udrà gli accenti più patetici della disperazione di Werther inseriti da Goethe nella seconda edizione per preparare gradualmente al suicidio finale, e si vedrà confrontato con una seconda parte assai più secca e persino brutale di quanto ricordi – in perfetto stile «Sturm und Drang». In generale, sentirà forse la mancanza delle simmetrie accuratamente introdotte da Goethe nella seconda edizione per dare una misura classica al più celebre e cupo dei suoi lavori giovanili.

Il vecchio si fa nuovo
Capita a volte, quando un testo è consumato dalla celebrità, dai tanti rifacimenti e dalle infinite interpretazioni, che sia necessario salvarlo dalle sue conseguenze e restituirlo a una natura iniziale. La traduzione che Enrico Ganni ci ha lasciato del Werther è un lavoro di sottrazione, un Goethe restituito a Goethe e riproposto senza il peso delle sue metamorfosi.

Ci sono stati, nel tempo, un Werther sentimentale, un Werther rivoluzionario, un Werther libertino e un Werther ribelle; la sua storia è stata letta come un prototipo assoluto di narrazione lirica, psicologica, preromantica, preborghese, stürmeriana e antistürmeriana. Ma il più vecchio Werther appare, oggi, il più nuovo immaginabile e merita proprio per questo una rilettura attenta e sobria come lo stile della sua resa. È una sobrietà rinfrescante che costringe per un attimo all’oblio del passato per ritrovare, al di là del molto che oggi è fin troppo facile sapere, il senso di ripensare un classico con occhi nuovi. È forse il più grande servizio che Enrico Ganni potesse rendere all’autore che, probabilmente, più gli è stato vicino nei suoi ultimi anni.