Il 1786 non fu un anno felice per Cagliostro. Liberato dai ferri della Bastiglia e costretto a lasciare la Francia, sbarcò in Inghilterra pieno di speranze sul futuro della sua carriera di esoterista e ciarlatano. Ma un figlio dei tempi – giornalista, spia al servizio dei francesi, avventuriero – Charles Theveneau cominciò a sostenere, dalle pagine del «Courier de l’Europe», che il sedicente conte fosse in realtà un eccellente imbroglione, in grado di cambiare con paragonabile frequenza titoli e prigioni: ne svelò il nome, Giuseppe Balsamo, e le umili origini siciliane.

In una vibrante risposta, Cagliostro ammise di non avere sangue blu pur negando di essere quell’oscuro signor Balsamo. Le sue origini sarebbero rimaste misteriose come le fonti del suo sapere, ma ormai il castello di inganni e genialità che aveva costruito iniziava a mostrare crepe profonde.

Sulla decadenza di questo provvisorio eroe, l’editore Bonanno propone ora una deliziosa (e stratificata) pochade scritta da Johann Wolfgang Goethe nel 1791, Il Gran Cofto La commedia di Cagliostro (pp. 157, € 15,00), resa colloquiale e in qualche modo moderna dalla traduzione di Giuseppe Raciti (che cura questo volume dopo l’edizione Sellerio del 1981), mentre l’introduzione di Marino Freschi colloca con sapienza il testo nella vicenda massonica dell’autore e in quel turbolento scorcio di storia europea che precede la Rivoluzione francese.

La scoperta di Thevenaeau aveva fatto velocemente il giro d’Europa ed era giunta anche in Germania dove la massoneria esoterica contava adepti e vittime: lo sapeva bene lo zio di Heinrich Heine, Simon van Geldern, che nel suo diario ne descrive l’isterica diffusione tra una nobiltà avida di saperi e, soprattutto, di poteri sovrannaturali a compensazione del progressivo logoramento di quelli mondani.

Schiller, informato della vicenda da Elisa von der Recke, che scrive del ‘mago’ tutto il male possibile nella sua Notizia sul soggiorno a Mittau, si appresta a comporre Il visionario, una critica feroce alla massoneria mistico-esoterica, vera nemica – sostiene – dell’Illuminismo; nel romanzo (incompiuto) non poteva mancare la ‘presenza’ di Cagliostro: è l’Armeno, ambigua figura di ‘mago’ e ciarlatano che diletta e suggestiona il suo pubblico evocando gli spiriti ed esibendo poteri eccezionali.

Segreti occultisti
Goethe non è da meno. Giunto in Sicilia, tra gli incontri e le emozioni che l’isola gli regala ci sono anche i Balsamo, che va a trovare per saperne di più sulle origini di Cagliostro. La storia dell’incontro, narrata nel Viaggio in Italia, è un esempio luminoso di disordine morale e di supponenza borghese: partito per il Bel paese con un nome falso e una professione wertheriana, inventa un altro nome e un’altra storia per meglio indagare sulle ascendenze del discusso personaggio; conosce brave persone, un po’ credulone e un po’ speranzose, e riparte senza nuove scoperte né sensi di colpa. Tornato a Roma, decide di mettere in burla le pratiche occultistiche di Balsamo e dei suoi adepti e comincia a scrivere il libretto di un’opera buffa di impronta italiana, I mistificati.

Naufragato quel progetto, a due anni dalla rivoluzione francese ne rielabora l’idea, collegando la critica all’esoterismo modaiolo e credulone, e alla rievocazione del famigerato (e romanzesco) affaire du collier, la speculazione di due gioiellieri parigini che, dopo avere collezionato per anni pietre preziose allo scopo di farne una collana per la contessa Du Barry, favorita di Luigi XV, alla morte del re cercarono di venderla per un prezzo esorbitante, con la malleveria del cardinale de Rohan, alla nuova regina Maria Antonietta che la rifiutò, trovando l’investimento più adatto all’ acquisto di un vascello. È un buon tema – scrive Goethe – «giacché in definitiva possiede non soltanto un significato etico, ma anche un grande significato storico».

Incapace – secondo quanto ha scritto Giuliano Baioni – di affrontare il dramma «che faceva crollare tutto il suo mondo», sceglie la farsa, come per il Bürgergeneral, la commedia sulla Rivoluzione francese e,«per trovare nel terribile evento un lato allegro», concepisce il Grande Cofto, una irriverente denuncia dei motivi del tramonto dell’ancien régime e una moratoria sulle seduzioni dell’occulto. Freschi sottolinea il legame tra questo testo burlesco e l’intenso Flauto magico mozartiano, andato in scena a Vienna pochi mesi prima (il 30 settembre 1791), un’opera che aveva affascinato Goethe al punto da spingerlo a progettare un sequel dell’opera (che, iniziato nel 1795, non venne mai realizzato).

Leggera ma tutt’altro che banale, la commedia mette in scena, come del resto la Zauberflöte, alcuni ‘segreti’ della pratica occultistica e delle utopie massoniche, suscitando perplessità e disagio tra gli adepti.
I cinque atti vengono rappresentati nel dicembre del 1791 al teatro di Weimar senza alcun successo, malgrado il nobile pubblico del granducato non disdegnasse le farse e l’autore fosse stato ben attento a non criticare troppo la nobiltà: tra i personaggi, infatti, la principessa è del tutto inconsapevole del raggiro della collana, mentre il collerico e ingenuo Cavaliere che scopre e denuncia il misfatto riesce a preservare nella vicenda onore e dignità. Gli altri, di personalità sbiadita e ancor più fatiscente nobiltà, sono burattini al filo di due burattinai: una marchesa di ottimi natali e migliore decadenza, che spera di riguadagnare il prestigio perduto sfruttando le vanità di una aristocrazia vana e credulona e un mago di oscure origini che evoca forze occulte garantendo agli adepti quei gradi massonici che iniziavano a sostituire per importanza sociale quelli militari.

Alleanza furfantesca
Gran Cofto definisce Goethe il suo protagonista legando Balsamo (e la commedia) alla più nota delle sue invenzioni, la Loggia egizia che fonda nel 1784 meticciando elementi rosacrociani e ‘inglesi’ nella suggestione della Loggia napoletana di Raimondo di Sangro e promettendo ai suoi adepti il dominio sugli elementi, sulla natura e sugli spiriti: «una vita durevole – gli fa dire Goethe – ricchezze inesauribili, l’affetto degli uomini, la docilità degli animali» . I due furfanti, il Cofto e la Marchesa, si capiscono, si conoscono e si sostengono «senza bisogno di accordi». Eppure, malgrado l’alleanza, verranno smascherati e gettati in prigione, mentre – ma di questo l’autore prudentemente non scrive – lo scandalo che coinvolge la principessa, controfigura fin troppo scoperta della regina di Francia, logora l’esile prestigio della monarchia accelerando la fine di quello che per Goethe è il più bel regno del mondo.

Quasi venti anni dopo, nella Campagna di Francia, ritorna con maggior decisione sul legame tra decadenza, creduloneria e rivoluzione: «Avevo avuto occasione di maledire le imposture di (…) fanatici di professione e di stupirmi dell’inconcepibile abbagliamento (…) dinanzi a tali insolenti sfrontatezze. Ora le conseguenze di tali follie si manifestavano quali delitti e gravi offese alla maestà».