In Le Redoutable (titolo originale di Il mio Godard) il vero « redoutable » non è Jean-Luc Godard ma Michel Hazanavicius. La sua operazione mischia un azzardo e un vizio. L’azzardo è il fatto di pensare che tra lui e Godard esista un legame perché ad entrambi viene rimproverato di non voler ripetere una formula che ha avuto successo. Il vizio consiste nel fatto che il film di Hazanavicius accusa Godard esattamente della stessa cosa: ovvero di aver tradito il cinema (e l’amore) per l’impegno politico. Come è possibile ?

 

 

Un piccolo detour. In francese, «redoutable» è il carattere di ciò che dovrebbe suggerire diffidenza. L’accezione può variare. Si teme un essere che si sa superiore, si diffida di una persona terribile. Contrarie, queste due accezioni non sono necessariamente alternative; coesistono nella contemplazione dell’assoluto, che l’espressione timorato di Dio illustra, dove paura e speranza, diffidenza e fede si alimentano a vicenda. Ma quand’è che Godard è diventato un «redoutable» dio dell’arte ?
In realtà, Godard è sempre stato diverso. L’ambizione, il talento, il rigore che la sua opera esprime distinguono da subito quest’ultima da quelle di tutti gli altri cineasti della Nouvelle Vague. Il suo lavoro è mosso da una fede incondizionata nel fatto che l’invezione del cinema sia l’evento più radicale del nostro tempo. Ma che, paradossalmente, sia anche il meno pensato. Perché a pensarlo è per lo più la critica. E la critica non pensa cinematograficamente. Essa si allontana dunque dall’essenza del cinema che ricopre della propria (letteraria, intellettuale, astratta). Per questo, è solo cinematograficamente che si ci può avvicinare al cinema. Essere fedeli a quest’idea vuol dire non smettere mai di muoversi in avanti. Coloro i quali rimproverano a Godard di essere diventato elitario o oscuro non hanno visto nei suoi film « per il grande pubblico » – A Bout de Souffle, Vivre sa vie, Pierrot le fou niente di più di quello che Carlo Ponti è stato capace di vedere in Le Mépris (snaturato e distribuito in Italia con il titolo di Il Disprezzo: vale a dire un modesto intreccio amoroso.

 

 

Ora la storia in Godard è sempre una ricombinazione degli stessi elementi (quelli del Viaggio in Italia di Rossellini: una coppia, un viaggio, un’automobile, un appartamento, una lite…), proprio perché il film possa darsi in una forma totalmente nuova.
È vero che, dopo il 1968 Godard ha impresso una svolta molto radicale al suo modo di lavorare. I film del dopo maggio, girati in complicità con Jean-Pierre Gorin (sotto l’etichetta «Gruppo Dziga Vertov») costituiscono una cesura. Non riconoscerlo sarebbe disconoscerne la forza. Pensare, come si sostiene nel Mio Godard, che questi abbia rinunciato al cinema per la politica, vuol dire aver fraintenderne il senso.

 

 

 

Nella politica Godard non trova mai un fine a sé ma sempre un terreno dove confrontare il linguaggio del cinema ad altri modi di espressione ; in questo caso quello della lotta di piazza, della discussione di gruppo, degli slogan, delle assemblee… Il fine resta tenacemente lo stesso : chiedersi, facendolo, cosa sia il cinema.
Rispetto alla potenza, e alla bellezza, di quest’ossessione – che ci ha regalato una delle più grandi esperienze artistiche del novecento e di questi primi anni duemila – il film di Hazanavicius – nonostante l’ottima prestazione di Louis Garrel – sembra semplicemente un piccolo malinteso. Sarebbe tuttavia un peccato se il pubblico giovane, che ignora quei film, invece di farsi un’idea di prima mano si fermasse alla pantomima, redoutable, di Hazanavicius.