Nell’ascensore – o godarnianamente «Accent-soeur» – che si tuffa nel cielo invernale di un azzurro quasi sfacciato, la voce di Godard riecheggia roca, quel «mantra» a cui ci hanno abituati i suoi film di questi anni, quasi un contrappunto alla sua assenza «fisica» nei luoghi dove le sue immagini, cioè quelle del mondo e quelle del cinema, vengono presentate. Ci è voluto tempo e molta ostinazione per convincere il regista a realizzare Le Studio d’Orphée, che si inaugura domani alla Fondazione Prada di Milano – al primo piano della galleria Sud – dove rimarrà in forma di installazione permanente (info: www.fondazioneprada.org); il «corteggiamento» è andato avanti qualche anno senza arrendersi ai suoi ripensamenti – pare diversi e anche all’ultimo minuto – alle sue esitazioni, alla sua scarsa passione verso «musei» e «esposizioni». Basti ricordare quanto accadde nel 2006 al Centre Pompidou di Parigi con il progetto della mostra che poi divenne Voyage(s) en Utopie: doveva essere altro, almeno così era stato annunciato, a cominciare dal titolo: Collage (s) de France, che era un gioco di parole sul tentativo di Godard di fare dei corsi di cinema al Collège de France (mai andato in porto) e sul collage vero e proprio, forbici e colla, da lui utilizzato nelle immagini dei suoi film. Poi l’apertura fu rimandata, il bozzetto originale stravolto, irrealizzabile per ragioni economiche, anche se poi la forma finale era la sola declinazione possibile: un attraversamento dell’opera di Godard, compiuto da lui stesso, e del secolo da poco trascorso con lo sguardo ben fermo alle scommesse e agli interrogativi futuri di un immaginario sempre in movimento.

STAVOLTA le cose sono – o sembrano? – diverse, Le studio d’Orphée non è infatti pensato per occupare, seppure provvisoriamente, un intero museo – e del resto: non bastano poco più di 9 minuti per attraversare a perdifiato il Louvre come nella corsa folle dei tre protagonisti di Band à part? È qualcosa di più intimo, e teoricamente di privato, oltreché appunto di definitivo: si tratta dello studio nella sua abitazione a Rolle, in Svizzera, dove vengono ideati, realizzati, montati, mixati i suoi film, che Godard ha deciso di trasferire «per sempre» a Milano alla Fondazione Prada: attrezzatura tecnica, mobili, quadri, cartoline, libri, oggetti personali, il cappotto, la sciarpa, i guanti, il cappello, qualche camicia. Un manifesto di L’avventura di Antonioni e uno di Jour de Fete di Tati, i tappeti, le lampade, il ritratto di Hannah Arendt, la racchetta da tennis, le fotografie del cane, i collage, una poltrona di cuoio, qualche sedia. E i film, nove cortometraggi fino al più recente Le livre d’image, rimandati da uno schermo più piccolo a uno più grande a loop, ci si può fermare fino alla fine o si possono guardare solo dei frammenti e intanto curiosare intorno, come se si fosse varcata una qualche soglia «segreta» ma senza imbarazzo perché tutto è lì, tutto è evidente, nell’accordo tra chi guarda e chi si fa guardare.

QUINDI ecco il Leone d’oro vinto a Venezia per Prénom Carmen, nei libri, una copia di Céline – Férie pour une autre fois, per terra il romanzo di Charles-Ferdinand Ramuz, Les Signes parmi nous. E La grande parade di Kevin Brownlow, Le Musée imaginaire di Henri Langlois, i quattro volumi delle sue Histoire(s) du cinéma, il diario di Delacroix, un libro dedicato a Nicolas De Stael, e ancora altre fotografie, ritratti di Renoir, Kafka, Goethe, Virginia Woolf, il ciak di Le Bolero fatal il film nel film che doveva girare il regista immaginario Vicky Vitalis in Forever Mozart, il poster di Notre Musique.
Godard lo chiama «il mio ’atelier’» a sottolineare l’artigianalità del suo fare cinema, è venuto lui stesso a Milano a seguire l’allestimento, a sistemare le immagini piccole e grandi, i dettagli – compreso in un angolo il secchio con le scope per pulire in terra. C’è dunque una equivalenza tra il regista e l’Orfeo del mito che girandosi fece perdere per sempre nella morte amata Euridice? E questa stanza cosa ci suggerisce oggi? «Il cinema come realtà…» dice la voce in uno dei film proiettati… E poco dopo: «Le foto attestano la realtà… ma la realtà è messinscena…». Cosa è allora cosa questo Studio di Orfeo, nel segno duplice di una esistenza senza tempo e insieme di un tempo che non è più lì? Il cinema di Godard e Godard stesso, la sua essenza iconica nei particolari che ne connotano l’immagine pubblica – la sciarpa, il cappello, il cappotto – come quelli di una rockstar – e le figure che sono i segni del suo cinema, che vi tornano, il secolo passato e il millennio presente, in una messinscena accurata che è di folgorante verità.

C’È QUALCOSA di commuovente e di malinconico insieme in questo autoritratto d’artista, volutamente e con una certa ironia a distanza, quasi come se Godard nel condividere – o meglio nell’oggettivizzare- ciò che ne «identifica» la figura e l’arte se ne spogliasse lasciando tutto sospeso tra un «qui ed ora» e un «allora». Dove sta Orfeo in questo confine? Qual è l’attimo in cui ci si può voltare e quello invece che si deve tenere lo sguardo diritto avanti? È un gioco serissimo, che a poco a poco svela la macchina del suo cinema, «Les Histoire(s)» passate e future, una poetica (e una politica), le esigenze di un fare. . Da qualche parte c’è (forse) un altro (nuovo) studio, qui c’è questo disseminato di un immaginario (e di una vita) che dialoga con ciò che ce lo rende riconoscibile, vi rimanda,lo interroga in una riflessione aperta – e consegnata a ciascuno dei visitatori – su un’opera e su quel caledoscopio di possibilità che contiene. Potenza dell’immagine, del tempo, dell’amore, del cinema.