Non è stato un cattedratico precoce, solo in età matura sorbonnard, il critico letterario Henri Godard che a trentasette anni, nel 1974, firma la prima curatela della edizione sistematica di Céline per la «Pléiade» continuando per decenni fino all’uscita delle Lettres, nel 2009, predella documentaria al suo capolavoro, la monumentale biografia Céline edita da Gallimard nel 2011, un testo che storicizza definitivamente la prima di François Gibault, edita negli anni ottanta da Mercure de France, lacunosa e per più di un motivo faziosa. Godard ha scritto negli anni una quantità di saggi e di perizie céliniane ma alternandole agli studi su altri autori esordienti fra le due guerre, quali André Malraux, Louis Guilloux, Jean Giono (a lui dedica già nel 1980 un prezioso Album Giono per la «Pléiade»), non escluso il Raymond Queneau romanziere, che pure sembrerebbe tanto lontano dai precedenti e che invece Godard, una ventina di anni fa curatore delle sue opere ancora nella «Pléiade», riconduce a una vena sì sperimentale ma per niente svagata.
Ora, l’uscita di Céline et Cie Essai sur le roman français de l’entre-deux-guerres: Malraux, Guilloux, Cocteau, Genet, Queneau (Gallimard «Hors série Littérature», pp. 267, € 21,00), che assembla e riplasma scritti dell’ultimo ventennio, fornisce la conferma che lo sguardo di Godard non deduce una filiazione ma disegna una vera e propria orografia di rapidi sbalzi altimetrici il cui picco, che è anche una frattura, viene localizzato nel Viaggio al termine della notte, edito nell’autunno del 1932. Un romanzo impensabile senza la diretta esperienza della Grande Guerra, un’opera che realizza il sublime dal basso (la voce spensierata e insieme infera di un umiliato e offeso) evadendo finalmente il mixage di sociologia e psicologia che gli eredi del romanzo naturalista, non escluse certe propaggini di Anatole France e dello stesso André Gide, hanno trasformato, specialmente agli occhi degli scrittori reduci dalla trincea, in una dilettazione morosa. Bardamu, il protagonista del romanzo che di Céline può dirsi un ventriloquo, incarna la incosciente serietà del capro espiatorio e, nello stesso tempo, la sventata ilarità di uno scampato. Le sentenze che pronuncia o meglio si sorprende a pronunciare Bardamu (e/o il suo alter ego Robinson) sono spesso e volentieri aforismi sulla esistenza umana in quanto condizione della mortalità.
Non occorre cercare la conferma nell’epigrafe céliniana della Nausée di Sartre (comunque tratta dal canovaccio teatrale L’Eglise, non dal Voyage) per leggere il romanzo in un frangente di esistenzialismo, peraltro immediatamente ribadito sia da La condizione umana di Malraux, un titolo eloquente del ’33, sia dal capolavoro di Guilloux, Sangue nero (’35, la cui versione italiana, mai purtroppo ristampata, è nel catalogo Feltrinelli). Céline avrebbe presto ritenuto il Voyage un libro stilisticamente ingenuo, ancora troppo realista nel senso convenzionale «con le frasi che filano», insomma troppo cinematografico, tant’è che in Morte a credito egli valica la linea del naturalismo e introduce i famosi tre puntini che ritmano la petite musique, la stilizzazione linguistica dello spasmo emotivo.
Godard, a partire da quel grande esempio, vede l’entità della crisi indotta dalla guerra sulla forma-romanzo: Morte a credito interiorizza la sua deflagrazione, la percezione è adesso occupata da ciò che non si vede e pulsa dall’interno disarticolando l’espressione, fino a scorporarla e a sublimarla in musica. Magistrale è l’analisi stilistica comparativa fra il romanzo e Bagatelle per un massacro e gli altri libelli antisemiti, il che basterebbe a chiarire la natura ancipite di qualcuno che fu uno straordinario romanziere e contemporaneamente una canaglia razzista. Godard nota che la pagina del romanzo tende a deragliare, a frantumare le unità frastiche, talora a sospenderne il senso fino all’evanescenza, viceversa nei pamphlet (che pure utilizzano i tre puntini) le medesime unità espressive si ricompongono massicciamente mentre si susseguono figure elementari di schema quali l’anafora e l’iperbole: sono spie rivelatrici del fatto che un grande musicista può convivere nella stessa persona con un pessimo ideologo, verboso fino alla nausea. Godard sostiene che la crisi postbellica pone a tutti un’identica domanda: «Non si tratta più di visioni genericamente teoriche ma di riscontri concreti, nati dalla esperienza. Due fatti si impongono a costoro quali pietre di inciampo che interdicono ogni visione rassicurante dell’esistenza umana: la domanda ineluttabile sull’esistenza del male nella natura umana, e la noia». La risposta è sempre d’ordine strutturale o, più latamente, linguistico come è evidente in quelli che lo studioso definisce «romanzieri senza vocazione romanzesca», Jean Cocteau e Jean Genet, entrambi portati a una rielaborazione della prosa nei modi dell’inventiva poetica.
Differente è il caso di Giono, ab origine un narratore ctonio, un paladino della Natura e dei suoi arcani grandiosi, che tuttavia l’esperienza della guerra ha mutato in un cultore molto diffidente della Storia, nonostante certi residui che lo accosteranno ambiguamente alla ideologia ruralista del Maresciallo Pétain. Diverso ancora, ma meno risaputo, è il caso di Queneau che occupa l’ultima parte di Céline et Cie, il caso di chi deve affrontare la obsolescenza del romanzo tradizionale e dunque la impossibilità di utilizzare una trama preordinata e dei personaggi, per così dire, tridimensionali (pure se un giorno lo farà, eccome, basti pensare a un titolo su tutti, capolavoro di un’arte teneramente elegiaca: Le dimanche de la vie, 1952). All’altezza di quel ’32, quando Voyage va in libreria, Queneau si è già congedato dalla milizia avanguardistica, è un poeta in versi incline alle matematiche severe e infatuato da tempo dell’Ulisse di Joyce come delle scritture più centrifughe. Sta componendo qualcosa che possa connettere geometria e poesia in un’ars combinatoria, il cartesiano Discorso sul metodo voltato in letteratura. L’anno dopo ne esce un romanzo, Le chiendent, nella sostanza ancora incognito alla cultura italiana: ne fornisce una versione un poco acerba Fernanda Pivano con il titolo Il pantano, Einaudi 1948, mentre un’altra già nel titolo più consonante, La gramigna, si deve al poeta Giuseppe Guglielmi, ma non è mai apparsa se non al chiuso del complessivo volume dei Romanzi, Einaudi-Gallimard ’92, un volume curato da Giacomo Magrini (la cui introduzione, sia detto per inciso, è probabilmente lo studio più compiuto che in Italia sia mai apparso su Raymond Queneau).
Circa la sua collocazione, nota Godard: «Essendo stato il primo colpo di Chiendent un colpo da maestro, d’ora in poi Queneau e il romanzo non si lasceranno più. Pochi momenti ci saranno nella sua vita in cui Queneau non avrà un romanzo in cantiere o almeno, ogni volta che ne ha finito uno, allo stadio di progetto. Ma non sarà mai più lo stesso tipo di romanzo. Molto a lungo Queneau esplorerà, nello spazio così vasto e così fluido del romanzo, modalità ogni volta sempre rinnovate». Non finisce di stupire che cinquant’anni oramai di contatto con Céline e compagni non abbiano turbato l’equilibrio di una prosa così chiara, puntuale, nemica del gergo accademico e sempre rispettosa del lettore anche meno smaliziato. È la prosa di un maestro, Henri Godard, che un recensore definì una volta «capace di trasportare dinamite senza saltare in aria».