Nella sala dedicata alle conferenze stampa di Cannes il tavolo degli ospiti è deserto, ma la stanza è comunque gremita: si aspetta Jean Luc Godard, che ancora una volta non è fisicamente al Festival ma per presentare il suo Le livre d’image ha comunque acconsentito a parlare con la stampa – attraverso Face Time. Dalla sua casa in Svizzera, a Rolle, il regista appare quindi sulla croisette dal piccolo schermo di un telefonino, che viene posizionato di volta in volta davanti al viso di chi – davanti a un microfono come in una recita o una performance – gli deve porre una domanda. «Sembra il rumore di una mitragliatrice» dice lui rivolto ai fotografi che lo immortalano senza sosta attraverso il piccolissimo schermo, dietro al quale nel cinquantennale del ‘68 campeggia il poster del suo Il bandito delle 11. «Ricordo con affetto quel periodo – dice Godard – e tutte quelle persone che oggi non ci sono più». Qui di seguito gli argomenti trattati all’incontro.

«Le livre d’image» è fortemente politico, e si concentra a lungo sul mondo arabo.

Volevo mostrare come gli arabi non abbiano bisogno di noi: hanno inventato la scrittura e molte altre cose, hanno più petrolio di quanto gliene serva. Penso che dovremmo lasciarli in pace. Ma io sono solo un autore di film, e un film non può dettare la linea. Piuttosto mi interessano i fatti: non solo ciò che sta succedendo nel mondo ma anche e soprattutto quello che non sta succedendo, due elementi che vanno messi in comunicazione tra di loro. Moltissimi film mostrano o hanno mostrato ciò che accade o delle visioni del futuro. Ma troppo pochi fanno vedere quello che non succede, e spero che il mio sia uno di quelli. Perché penso che proprio quello che non sta succedendo potrebbe portarci a una catastrofe totale. Stiamo dando prova di poca intelligenza.

Il suo film fa ricorso solamente a immagini d’archivio.

Fare cinema si basa interamente su questo. Il montaggio è ciò che conta, più che girare: consente una maggiore libertà perché anche quello digitale deve essere fatto con le mani. E come viene detto nel mio film «dobbiamo pensare con le nostre mani»: le cinque dita e la «regione centrale», che è quella dell’amore.

Come ha lavorato al sonoro?

L’intento era separare l’audio dall’immagine: non volevo che fosse un commento, ma un dialogo. Il suono non dovrebbe essere troppo «vicino» all’immagine. Infatti il modo perfetto di vedere di Le livre d’image sarebbe sullo schermo di un bar, dove sembrerebbe di assistere alla proiezione di un film muto, con il suono che viene dalle casse posizionate ai lati opposti del locale.

Da tempo ormai non lavora più con degli attori.

Attori e attrici mi hanno molto aiutato nel corso della mia carriera, ma come le democrazie moderne contribuiscono alla nascita dei totalitarismi allo stesso modo oggi gli attori prendono parte al totalitarismo di immagini dietro alle quali non c’è pensiero. Noi non abbiamo studiato nelle scuole di cinema ma in cineteca, e vedevamo film che ci sembravano modernissimi anche se erano stati girati molto tempo prima. Ora invece non c’è molto da imparare dalle immagini.

Nel film si fa riferimento anche alla Catalogna

Mentre montavo sentivo le notizie sulla Catalogna, il referendum eccetera, e ho pensato all’Omaggio alla Catalogna scritto da Orwell. Vedo il cinema come una piccola Catalogna che ha difficoltà ad esistere.

Farà altri film?

Continuerò finché posso, finché potrò fare affidamento sulle mie gambe, le mie mani, i miei occhi. Perché oggi alla maggior parte delle persone, anche ai giovani, manca il coraggio di immaginare le loro vite. Io invece quel coraggio ce l’ho.