Domenico Gnoli nel 1963, fotografato da Mimì Gnoli

 

Alla richiesta di scrivere qualche parola sul suo lavoro, per accompagnare le opere in mostra al Premio Marzotto del 1966-’67, il trentatreenne Domenico Gnoli rispose con poche righe acuminate: «In un momento come questo di iconoclastica antipittura che vorrebbe rompere tutti i ponti col passato, io tengo a collocare il mio lavoro in quella tradizione “non eloquente” nata in Italia nel quattrocento e arrivata fino a noi passando, da ultimo, per la scuola metafisica. Mentre sembra conclusa l’esperienza di quanti vollero interpretare, deformare, scomporre e ricreare, la realtà ci si ripropone imperterrita e intatta. L’oggetto comune, isolato dal suo abituale contesto, ci appare come il testimone più inquietante di questa nostra solitudine senza più ricorso di ideologie e di certezze».
È un testo astuto, che dice e nasconde, e serve a Gnoli per individuare il perimetro della sua singolare condizione nel quadro generale dell’arte del momento. Gnoli sottolinea anzitutto il legame con la tradizione «non eloquente» dell’arte italiana, espressione messa tra virgolette e tratta dal titolo di un testo dedicato da Bernard Berenson a Piero Della Francesca, come nota Salvatore Settis nell’introduzione al catalogo della bella mostra di Gnoli alla Fondazione Prada di Milano (fino al 27 febbraio), concepita in origine da Germano Celant e condotta in porto da Carlo Barbatti.
L’altro riferimento di Gnoli nel testo del Premio Marzotto è alla metafisica, cui l’autore deve la qualità «imperterrita» di oggetti che, visti molto da vicino, sembrano guardarci e interrogarci piuttosto che viceversa. Tema – lo sguardo delle cose – caro al de Chirico metafisico, che Gnoli affronta tuttavia secondo modi non perturbanti, ma affabili e ironici. Inoltre, la tecnica usata da Gnoli per le opere più tipiche, acrilico unito a sabbia, produce un’epidermide calorosa e sensibile, distante da quella dei quadri metafisici, dove de Chirico stende solo quel tanto di materia che serve a far vivere il simulacro delle cose. La materia di Gnoli è viva, preziosa, capace di intercettare e rifrangere la luce, e fa il verso, affettuosamente, alla tradizione italiana dell’affresco.
Quando scrisse il testo per il Premio Marzotto Gnoli era approdato da un paio d’anni allo stile e al mondo poetico che renderanno la sua presenza ben individuabile nella situazione della pittura degli anni sessanta. Aveva cominciato non ancora ventenne con illustrazioni e scenografie teatrali. Queste ultime gli procurarono i primi successi internazionali – Gnoli sin dall’inizio si mosse a suo agio tra Roma, Parigi, Londra e poi New York –, ma vennero presto abbandonate, perché lo costringevano a un lavoro di gruppo per il quale non si sentiva tagliato. Le opere grafiche degli anni cinquanta sono ricche di invenzioni capricciose, neobarocche, piene di ghirigori, segni, personaggi al limite della caricatura, e oggetti. Dai primi passi in Gnoli si manifesta l’attenzione per un mondo di cose che evocano la presenza umana e ne definiscono, al tempo stesso, l’assenza. È il tema caro all’artista in tutto l’arco della sua breve carriera, stroncata nel 1970 da un cancro, quando Gnoli aveva trentasette anni.
Nelle illustrazioni, al silenzio dei tavolini vuoti delle osterie, ai cumuli di cassette della verdura abbandonati sui sampietrini di una Roma deserta fanno da contraltare l’animazione frenetica delle attività della base spaziale di Cape Canaveral o l’affollamento che accompagna gli incappucciati della processione della Settimana Santa di Siviglia. Il gusto di Gnoli per il sapore delle storie ne fa un grande illustratore, per libri (ad esempio il suo Orestes, or the Art of Smiling, Alberic the Wise and Other Journeys di Norton Juster o il Journal of the Plague Year di Daniel Defoe) e, soprattutto, per riviste. Fino all’ultimo Gnoli si mantenne grazie alla sua abilità di illustratore, per periodici americani come «Horizon», «Sports Illustrated», «Playboy», cui chiedeva lavoro perché, sebbene nella seconda metà degli anni sessanta fosse sotto contratto presso due dei maggiori galleristi del momento (prima Jan Krugier poi Sidney Janis), riceveva un magro stipendio per i tanti quadri che doveva, faticosamente, produrre.
Ancora nel 1967 Gnoli disegna sei magnifiche tavole che l’anno dopo (quando i suoi quadri vengono esposti alla documenta di Kassel) illustreranno su «Horizon» il testo A Modern Bestiary. What is a Monster? di Robert Graves. Creature fantastiche buffe e perturbanti – un uccello con la testa di rinoceronte, un pesce con la chiocciola di una lumaca… – abitano gli spazi anonimi della vita quotidiana: l’ascensore, il sofà, la camera da letto ancora vuota, ma pronta ad accogliere la proprietaria della camicia da notte stesa ordinatamente sul letto. Benché concentrate su un singolo motivo e meno affollate delle precedenti, le immagini dimostrano una volta di più la distanza fra lo Gnoli illustratore e lo Gnoli pittore.
Se avesse prodotto solo illustrazioni Gnoli non avrebbe lasciato un segno così importante sull’arte moderna italiana, e neanche se la sua attività di artista si fosse fermata ai quadri degli anni cinquanta, dove compaiono monumenti, figure e oggetti immobili e bitorzoluti, laboriosamente costruiti con una materia così gravida da aggettare dalla superficie, talvolta come in un bassorilievo, echeggianti a Gentilini e Dubuffet, e un po’ anche a Fausto Pirandello e all’espressionismo romano del secondo dopoguerra.
Il cambiamento decisivo, che svela uno sguardo nuovo e originale, avviene nella pittura di Gnoli a partire dal 1964, anno in cui presenta a Parigi un gruppo di lavori recenti. In essi è come se fosse andato in avaria il dispositivo regolatore della distanza dalle cose e l’occhio, in picchiata, si fosse avvicinato talmente agli oggetti da metterne a fuoco soltanto i particolari. Di lì in poi il mondo di Gnoli si compone soltanto di porzioni di indumenti, di asole e bottoni, di tasche dei pantaloni, di capigliature ricce o lisce, di colli di camicie; di scrivanie, divani e poltrone. Di qui il fascino e l’enigma di questa pittura. Più che descrizione di cose, i quadri di Gnoli sono, come voleva Italo Calvino, episodi del rapporto fra lo sguardo e il suo oggetto. E c’è dell’altro: l’artista predilige oggetti senza tempo, e non solo perché la luce che vi si posa è immobile, ma anche perché non vi è alcun ammiccamento alla moda, al presente, alla vita moderna, come avviene invece nell’arte pop. Gnoli, un po’ come Jasper Johns, dipinge le cose di ogni giorno. Nascosto dietro l’ostentata banalità delle cose, tuttavia, può anche esistere (ha pensato ad esempio Daniel Soutif) un ironico rinvio ad alcune esperienze dell’avanguardia degli anni sessanta: negli scarti dimensionali, oltre al ricordo di Alice nel paese delle meraviglie, vi è un po’ del gigantismo delle fette di torta di Oldenburg. Nei motivi a spina di pesce delle giacche maschili può celarsi un’allusione all’intermittenza dei segni nelle tele di Agnes Martin e nei motivi a zig zag delle cravatte c’è, di lontano, il sapore degli andamenti lineari nelle shaped canvases di Frank Stella.
La suggestione dell’arte matura di Gnoli sta però altrove. Leo Steinberg, scrivendo nel 1962 un testo su Johns, notava che nel suo lavoro gli oggetti appaiono come abbandonati. La stessa cosa si può dire di quelli di Gnoli, in un’accezione, tuttavia, particolare: guanti, scarpe, poltrone, divani, letti, sono tutti ricettacolo di corpi (lo notava Andrée Chedid) che sembrano essersi volatilizzati. E tuttavia continuano a parlarci, perché, diceva W.H. Auden, «I nostri tavoli e sedie e divani/ Sanno su di noi cose/ Che neanche i nostri amanti possono sapere.