«Scrittrice, poeta teorica femminista-queer chicana texana patlache (parola nahuatl per lesbica)». In questa personale descrizione che Gloria Evangelina Anzaldúa dava di sé stessa spicca una collocazione plurima e meticcia. Del resto la discendenza di Anzaldúa, nata in Texas da genitori di origine messicana, include sia i primi colonizzatori spagnoli del Messico sia i nativi di etnia e lingua nahuatl. Ecco perché guardava all’accoglienza delle diverse «correnti genetiche» secondo la prospettiva della mutabilità, capace di sviluppare pratiche di compimento delle contraddizioni e delle ambiguità – in uno stato di transizione perpetua. Di questo e molto altro parlava nel suo testo più celebre, Bordelands. La Frontera (1987), in italiano Terre di Confine. La frontera (Palomar, 2000) arrivato in Italia grazie alla lungimiranza di Paola Zaccaria, in cui si intrecciano autobiografia, manifesto politico e trattato antropologico con la poesia, disegnando una mappa delle lingue e delle contaminazioni che contraddistinguono il panorama linguistico delle terre di confine tra Messico e Stati Uniti.

Scomparsa nel maggio del 2004 all’età di sessantadue anni, immaginava che sarebbe bastato sistemarsi su entrambe le rive del fiume per «vedere contemporaneamente con gli occhi del serpente e con gli occhi dell’aquila». Quella che Gloria Anzaldúa chiamava la mestiza, luogo di congiunzione dove i fenomeni collidono senza fondersi, da lei definita «nuova» perché in evoluzione rispetto alla teoria di raza cósmica di José Vasconcelos, le aveva insegnato a essere «un’indiana nella cultura messicana, messicana da un punto di vista anglo».
A quindici anni dalla sua scomparsa, si è appena concluso a Parigi un importante convegno internazionale a lei dedicato (si veda la scheda in fondo all’articolo, ndr). Tra le ospiti anche Paola Bacchetta, docente di Gender & Women’s Studies alla University of California, Berkeley, che ha accettato di illustrarci l’attualità del cammino teorico e la transitività tra il pensiero e la parola di Gloria Anzaldúa.

Nel titolo del testo di Anzaldúa del 1987 il termine «La Frontera» coesiste con quello di «Borderlands». Potremmo parlare di compimento e di qualificazione dell’uno nell’altro? Può spiegarci in che modo la linea di separazione fisica e geopolitica degli spazi territoriali può rappresentare uno «spazio intermedio» di dialogo tra due o più culture?
Nella idea di Anzaldúa il termine «borderlands» contiene sia la definizione di spazio geografico sia quella di spazio interiore, culturale, simbolico e spirituale. Il fatto che i due termini coesistano permette di uscire da una prospettiva binaria: nonostante nel titolo traspaia la presenza dello slash, esso non rappresenta il simbolo di un’alternativa, si tratta piuttosto della coesistenza e la commistione di diverse lingue. Vuol dire constatare come Anzaldúa, nella scrittura di questo libro che contiene una ricca molteplicità di idiomi (al di là dello spagnolo e dell’inglese troviamo anche il tex-mex e la lingua indigena ad esempio), costruisca qualcosa che va ben oltre il dialogo; possiamo parlare di «plurilogo» che contempla prospettive interpersonali e intersoggettive che descrivono lei in quanto donna che ha potuto «contenere» e vivere nella sua persona tutto questo, in uno scambio continuo. La molteplicità delle lingue di Anzaldúa ci racconta della sua identità plurale, delle sue origini– del suo desiderio insomma di non rigettare nulla di lei in quanto soggetto. Leggerla è entrare in contemplazione di come il locale possa fondersi al transnazionale.

Nel tentativo di spiegare l’«appartenenza al margine» Anzaldúa ha parlato dell’«abitare le spaccature», del sentimento di non sentirsi a misura della norma e di trovarsi nello spazio liminale, quello che produce l’incrinatura. Quali sono gli ostacoli e quali le ricchezze riscoperte di questa «a-normalità»?
L’a-normalità è un prisma che ne descrive la persona e l’artisticità. Gloria era a-normale riguardo lo sviluppo dei suoi caratteri sessuali secondari fu precoce; in quanto lesbica queer; come razzizzata fin dall’infanzia in ragione del colore della sua pelle (più scura rispetto a quello del resto della famiglia, si definiva «la prieta»); a-normale in una prospettiva estranea alla normatività nazionale statunitense. Il suo essere fuori dalla norma la posizionava in quella liminalità che la rendeva capace di trasgredire, di crearsi una passerella rispetto al mondo:di fuga dall’altro inteso come other, di coalizione con l’altro inteso come another (quel tipo di altro, anzi di altra che leggiamo nell’espressione spagnola nosotras).

Nell’opera di Anzaldúa si riscontra la rivalorizzazione di diverse figure che nell’immaginario messicano tradizionale erano considerate come «negative»: Malinche, soprannominata Lengua, la traduttrice di Cortés, ma anche Coatlicue, la divinità femminile azteca incarnata nel serpente o ancora la Llorona. Può aiutarci a reperire i fili di questa strategia di recupero?
Ha ragione a chiamarla strategia perché è proprio di una strategia che si tratta. Si tratta di un metodo di riscrivere la storiografia ma anche la mitologia tradizionale. Quello che Anzaldúa ha saputo fare è estremamente interessante anche dal punto di vista del lavoro epistemologico. É significativo che nel repertorio del mito lei abbia scelto proprio dei soggetti femminili, per dare loro una nuova voce, inconsueta fino allora; è stata in grado di toglierle dalla fissità della tradizione che vedeva queste figure in maniera negativa per rivalorizzarle, per riscrivere la loro storia. É riuscita a mutare di verso qualcosa che fino ad allora era usato contro le donne per utilizzarlo a loro favore, per riscrivere la storia attraverso una griglia di intellegibilità capace di disfare i rapporti di potere inscritti nella mitologia dominante e di ricostruirli secondo una logica nuova. Quello che ha fatto è stato prendere possesso di storie subalterne di soggetti femminili e di riscriverne la storia. Anzaldúa ha ripreso anche la Virgen de Guadalupe, madonna messicana dai tratti meticci, simbolo sincretico che ricorda le madonne nere che avete anche in Italia, sulla cui «mitologia» potrebbero nascere delle riscritture che partono da diversi presupposti e che portano a conclusioni egualmente diverse.

L’idea di «mestizaje» abbraccia anche il momento del viaggio, che Anzaldúa vede come opportunità da cogliere in vista dei cambi di prospettiva e di percezione. Questi ultimi potrebbero portare anche a una decostruzione del pensiero – in una forma speciale di rifacimento del mondo. Può spiegarci l’importanza di queste decostruzioni e della nozione di disapprendimento?
Gloria Anzaldúa mi ha insegnato ad apprendere a disapprendere rispetto l’ideologia dominante. Trovare uno spazio alternativo rispetto a quello abituale può rappresentare una prima forma di ricerca, sia di un viaggio fisico sia di uno interiore. Lei proviene da una cittadina nel sud del Texas, ed è da lì che partirà per altri luoghi, tra cui vorrei ricordare Santa Cruz nello stato della California. Santa Cruz rappresenta un luogo dai plurimi paesaggi e simbologie: vi si trova il lembo di terra più a ovest verso l’Oceano Pacifico. Con Anzaldúa impariamo ad avere coscienza del nuovo meticciato e insieme a lei ci dirigiamo verso una «futurità» che definirei ottimista, nata dal processo di decostruzione di quanto appreso e del modo di vivere che ci hanno insegnato. Possiamo avviarci a una ricostruzione secondo un approccio al mondo che rifiuta di aderire a una visione che ci schiaccia per trovarne altre le cui fondamenta risiedono nell’impadronirsi di un sentire alternativo e negli itinerari cancellati del soggetto subalterno e subalternizzato.

Può dirci cosa ha rappresentato la raccolta di saggi di «This Bridge Called My Back; Writings by Radical Women of Color» (1981) per il femminismo transnazionale, decoloniale e intersezionale?
Questa straordinaria raccolta nasce come frutto di lotte, militanze e ricerche che precedono gli anni Ottanta. Si pensi ai movimenti militanti degli anni Settanta, tra cui voglio ricordare Dyketactics per affezione personale, un collettivo composto per la maggioranza da donne nere lesbiche che militava e rifletteva attorno al neocolonialismo, il genere, la sessualità, lo sfruttamento di classe secondo dimensionalità plurali e in intersezione. Intendo dire che come le radici del femminismo decoloniale iniziano a formarsi già in seno ai processi coloniali, o il femminismo intersezionale molto ben prima degli anni Novanta anche questa raccolta diede voce alle parole di donne razzizzate e già ben consapevoli di esserlo. Si trattava di donne di origini differenti: nere, native, asiatiche già ben coscienti della portata della razzializzazione dei gruppi oppressi e dell’incastro oppressivo dei rapporti di potere.

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SCHEDA. IL PRIMO CONVEGNO EUROPEO A PARIGI

Tre giornate di studio sono state dedicate di recente con il Colloque international “Gloria Anzaldúa : Traduire les frontières Translating Borders”.Si è trattato del primo convegno europeo sulla scrittrice e teorica femminista chicana, che accompagna nella cronologia il grande convegno de El mundo zurdo (il mondo della mano sinistra) di cui Norma Cantù e Norma Alarcón della Society for the study of Gloria Anzaldua sono l’anima. Il convegno parigino nasce dalle trame che Nadia Setti intesse da alcuni anni, nelle reti statunitensi e attraverso la frontiera tra Messico e USA, ma anche in quelle del femminismo queer et post/decoloniale in Europa. Questa occasione ha dato modo a ricercatrici ricercatori, scrittrici scrittori, artiste artisti e esponenti dell’attivismo del Nord America, del Sud, dell’Europa di riunirsi attorno a un’opera multiverse per riflettere sugli aspetti epistemologici, creativi e trasgressivi delle traduzioni e delle testualità multilingue e transculturali.