Mutevole, camaleontico, ma in realtà meno di quanto sembri. Ci vuole della sapienza per riuscire a cambiar forma senza intaccare la sostanza, non è prerogativa di tutti. Lassi Lehto, al secolo meglio noto come Jimi Tenor, ne è capace e anche con un certo stile. Da qualche settimana è disponibile il suo nuovo lavoro Order of Nothingness: si tratta di un inebriante viaggio sonoro a metà tra pop frivolo e scanzonato e la lezione poliritmica dell’afrobeat. Il tutto è tenuto assieme da un jazz delicato che in alcuni passaggi assume colori cosmici, alla Sun Ra. Sembrano distanti anni luce album downtempo come Intervision, Organism e Out of Nowhere per la Warp Records di fine anni Novanta. Eppure tutto ha un senso, come sottolineato dal finnico: «Ho iniziato negli anni Ottanta. Mi interessava il rumore e la musica molto sperimentale. Ma allo stesso tempo ero dentro la musica pop, perché ieri come oggi, apprezzo le melodie orecchiabili. Quindi sin dall’inizio ho avuto un atteggiamento leggermente schizofrenico nei confronti della musica. Nei Novanta mi sono avvicinato al jazz e all’elettronica e in contemporanea, mentre vivevo a New York, riuscii a mettere su il mio primo studio di registrazione. Nel frattempo scoprivo quale strumento fantastico fosse il flauto, sembrava perfetto per me! Negli anni Zero tutto è diventato progressivamente acustico e mentre iniziavo a scrivere per ensemble e big band, grazie all’amicizia con i ragazzi di Kabu Kabu ho approcciato i ritmi africani. In quest’ultimo decennio sono rientrato nell’electro, consolidando una sorta di hippie afro-jazz. Nonostante tutto, le basi del mio songwriting sono sempre le stesse, mentre lascio che le nuove esperienze che arrivano, possano influenzarmi».

CULTURA GRECA
Il disco in questione è sul mercato per conto della etichetta tedesca Philophon, la quale ha recentemente reso disponibile anche la compilation Bitteschon, Philophon! Vol. 1, che raccoglie vari singoli già pubblicati da musicisti africani come Hailu Mergia, Guy One e Y-Bayani & His Band Of Enlightenment, Reason Of Love. A capo della label si trova Max Weissenfeldt, personaggio duttile ancor più di Tenor: a una notevole carriera come batterista e percussionista in formazioni come Embryo, Poets Of Rhythm, Heliocentrics e Whitefield Brothers solo per citare i principali, affianca una moltitudine di ruoli che ricopre nell’etichetta. Della quale va fiero in ogni aspetto, ad iniziare dal nome, che tradotto suona come «amante del suono», testimoniando la sua invereconda passione per la cultura greca antica.
Non è solo Weissenfeldt ad avere un coinvolgimento appassionato nei confronti delle musiche del mondo. Berlino è oggi il luogo dove maggiormente si concentra l’interesse verso i suoni del Global South attraverso una serie di label e relativi distributori, ma di certo non mancano esperienze rilevanti nel resto della Germania. A ben scandagliare, vi sono profonde motivazioni storiche alle spalle di una scena musicale indubbiamente effervescente. A Berlino vi è la sede dell’Ethnologisches Museum, la prima e più importante istituzione museale teutonica in materia di studio, catalogazione e conservazione in ambito etno-musicologico. La fondazione risale al 1873, ma esiste una fase pioneristica di cui si ha traccia addirittura nel 1794, quando tale Jean Henry, predicatore e bibliotecario locale, venne nominato custode di piccole collezioni provenienti dall’estero attraverso i traffici commerciali. Henry fece carriera, divenendo successivamente direttore del «Gabinetto reale delle antichità, delle monete e dell’arte».
Evolvendo progressivamente nel corso dei decenni, incluso il periodo delle confische e restituzioni di beni trafugati da parte degli Alleati e dei russi durante la Seconda guerra mondiale, oggi il museo detiene e amministra mezzo milione di oggetti etnografici provenienti da ogni continente. A questi si aggiungono circa 285mila fotografie, 20mila film, 200mila pagine di documenti scritti e ben 140mila registrazioni sonore. Buona parte di queste sono state effettuate con la tecnica del cilindro di cera di Thomas Edison e sono prossime ad essere digitalizzate. La rilevanza di un luogo del genere e il suo consolidato radicamento territoriale danno idea di come e quanto possa avere influito socialmente.

STORIE NON ORDINARIE
Ecco che per i suoni del mondo, oltre la già citata Philophon, anche altre case discografiche segnano la differenza. Ognuna con una linea editoriale ben chiara e con storie non ordinarie, sovente ascrivibili al fondatore. Ad esempio la Habibi Funk, il cui cardine è il dj berlinese Jannis Stuerz. Il quale da un certo momento in poi della sua carriera, ha oltrepassato il confine tra semplice acquirente e ricercatore. Il primo disco pubblicato nel 2015 riguardò gli ottimi Dalton, formazione di soul funk arabo di Tunisi. Da quel momento in poi, Habibi Funk si è ripetutamente rivolta al mercato mediorientale e nord africano. Tra i nomi da non perdere, spiccano i sudanesi The Scorpions & Saif Abu Bakr portatori di un entusiasmante jazz funk, e della stellare carriera del compositore algerino Ahmed Malek a cui hanno dedicato anche un recente e ben eseguito video documentario. Nella stessa città è in piedi dal 1987 la Piranha Records, che può vantare oltre centocinquanta uscite in cui si spazia dalla brass band romena Fanfara Ciocarlia, alla stella nubiana Ali Hassan Kuban, alle leggende dello Zimbabwe Stella Chiweshe e Oliver Mtukudzi, per arrivare anche alle Nasida Ria, band di pop rock indonesiano composta da sole donne che propongono quella che viene chiamata dalle loro parti come Qasidah Music.
A Duisburg merita attenzione il lavoro svolto dalla Ironhand Records, diretta dai turchi Cem Seftalicioglu e Ercan Demirel, i quali danno spazio alla musica della loro terra. Anatolian rock e folk tradizionale turco sono ottimamente rappresentati in tutte le loro declinazioni, inclusi anche gli aspetti psichedelici contemporanei. Segnaliamo il recente Saz Power, collezione che ruota sul suono del liuto, protagonista in modo difforme a seconda delle interpretazioni dei vari Yildirim e Grup Simsek, Elektro Hafiz, BaBa ZuLa, Boogie Balagan e Cem Yildiz. Dedita all’attualità è anche la Out Here Records di Monaco, nel cui roster si rintraccia l’affascinante ed esplosiva Awa, rapper dello Zimbabwe che fa della difesa dei diritti delle donne uno dei suoi cavalli di battaglia. In passato sempre in ambito hip hop, ha dato spazio alle senegalesi Alif, ai tanzaniani X-Plastaz e al keniano Octopizzo. Al momento l’artista di maggior peso è il maestro maliano dello ngoni, Bassekou Kouyaté che una settimana fa ha pubblicato il nuovo Miri.
L’excursus discografico non può ovviamente prescindere dalla Analog Africa, etichetta centrata sulla figura di Samy Ben Redjeb. Nato in Tunisia da padre autoctono e madre tedesca, è giunto alla creazione del progetto grazie al suo lavoro come dj, traino nella conoscenza della musica africana. L’idea ha preso corpo grazie alle influenze della musica dello Zimbabwe: Redjeb viene colpito, anche lui, dal carisma di Oliver Mtukudzi. La proposta del ricercatore non viene accolta, ma sempre da quelle parti rimarrà folgorato dal funk rock dei The Green Arrows, capaci di fondere la modernità Seventies con suoni locali. L’ultima uscita riguarda l’accattivante danzereccio afrofunk dei togolesi Orchestre Abass, ennesimo, esaltante riscoperta. O come sinteticamente direbbe lo stesso Redjeb: «La musica del futuro che è stata creata nel passato».