La Duma russa applaude alla vittoria di Trump, e gli Stati Uniti diventano un paese in transizione. Il Presidente avrà in apparenza le mani piuttosto libere: il ‘vincolo esterno’ che limita l’azione di governo – già di per sé debole per la superpotenza americana – è ulteriormente affievolito dal fatto che Trump non ha un passato da legislatore o funzionario eletto a cui rendere conto in termini di coerenza. E’ però plausibile che trend strutturali del sistema internazionale, oltre al potere di Congresso e Pentagono, ancoreranno ai binari della realtà una personalità mercuriale che si è catapultata su una presidenza interamente votata ad uno stile executive.

Una decisione politica non è un negoziato di business: la stessa imprevedibilità che fa gioco nel mondo corporate rischia di avere costi troppo alti per il mantenimento della stabilità di un sistema su cui l’America di Trump – venata di isolazionismo e suprematismo – intende troneggiare egemone. Il laconico they will be gone riferito all’ISIS, su cui si attestava il ‘Trump candidato’, si troverà alla prova del fuoco nel momento in cui il ‘Trump presidente’ dovrà fronteggiare le insorgenze jihadiste e gli appetiti regionali che l’avanzare del fronte di Mosul e Raqqa inevitabilmente innesca: vedremo la spesa militare Usa sfondare i tetti imposti durante l’era Obama.

[do action=”citazione”]Non sorprende, pertanto, quanto emerge dalla stampa del Golfo: ovvero che mesi fa lo staff del tycoon abbia contattato le diplomazie arabe invitando a non prestare attenzione ai giudizi sprezzanti rivolti al loro indirizzo, giustificandoli con esigenze elettorali. [/do]

In modo simile, il costante attacco verbale alla Cina verrà necessariamente temperato da una realtà in cui i cinesi sottoscrivono gran parte del debito Usa, e verosimilmente vede in Trump l’opportunità di guadagnare influenza politica in Asia in cambio di una postura meno aggressiva sul mercato statunitense. Espellere l’Iran dal consesso internazionale rimettendo mano all’accordo sul nucleare con Teheran – come promesso in campagna elettorale – può avere costi politici spropositati, soprattutto con l’amico Putin.

Lo sguardo corto del politico sul prossimo tornante elettorale significa per Trump tenere d’occhio l’elezione di mid-term. Si materializzano qui tutte le insidie della democrazia già entrata nella sua fase post-liberale, in cui i meccanismi di selezione e conferma del ceto politico sostanzialmente persistono inalterati, mentre si trasforma, svuotandosi, la natura dell’ordine politico, che dalla democrazia scivola verso la demagogia.

Come l’ordine interno, anche quello internazionale non è al riparo dal trionfo degli scenari meno attesi. E’ già assai probabile che gli Usa di Trump saranno un ostacolo lungo la strada degli accordi sul clima (COP22), liquidati dal candidato repubblicano come frutto della manipolazione dei burocrati cinesi per colpire l’industria americana. In modo simile, se è plausibile che la burocrazia di Washington non darà seguito alla foga verbale del neo-presidente contro la Nato – definita “organizzazione obsoleta” – lo scenario più mite è che l’America di Trump diventi significativamente meno atlantista. Kyiv sta sulle spine, dato che le voci anti-russe sono state sistematicamente espunte dalle piattaforme della campagna elettorale del neo-presidente.

Il dato cruciale è l’accusa rivolta alle amministrazioni precedenti di essersi troppo impegnate nel plasmare un’egemonia fondata sull’assorbimento dei costi di mantenimento del sistema internazionale: gli interventi militari, i costi della NATO, l’integrazione europea, la promozione dello sviluppo di mercati, democratizzazione e classi medie – dal NAFTA alla Cina. Questo comunque significa dinamitare le basi liberali della global governance, i cui pilastri economici e politici erano già in crisi fra recessione globale e guerra al terrore.

Se si pensa all’anno di ritardo con cui l’amministrazione Bush consegnò ad Obama tutte le chiavi della politica estera e di sicurezza, il passaggio di consegne fra Obama e Trump non è affatto scontato. In parecchi saranno tentati dal cogliervi l’opportunità, disallineandosi per il tempo necessario a perseguire i propri interessi mentre il nuovo presidente non è ancora pienamente al comando. Nel medio termine, il differenziale fra quanto Trump ha promesso per riasserire la grandezza americana e quanto può realmente perseguire, rischia di inasprire le tensioni internazionali, con un saldo in termini di conflitti e restaurazioni autoritarie.

Perché, se l’America forte della propria preponderanza, non è più disposta a sostenere i costi dell’egemonia globale, nelle cerniere, più vulnerabili del sistema internazionale il vuoto politico che ne risulterà, verrà riempito (cosa che in parte già sta avvenendo) da altri attori, assai meno interessati ai vincoli di condotta dei governanti verso i governati, e pressoché immuni rispetto alle opinioni pubbliche. Certo, anche per le democrazie l’ipocrisia – piuttosto che la filosofia – liberale ha spesso sostenuto politiche di potenza avventuriere, ma l’esaltazione del realismo cinico che unisce Trump a Putin pare la pietra tombale di tutte le venature liberali che hanno marcato l’ordine mondiale dalla fine della seconda guerra mondiale fino ad oggi.

D’altronde, se le stesse democrazie hanno già mostrato di essere disposte a sacrificare i valori liberali di fronte all’emergenza sicuritaria, non si capisce perché non dovrebbero farlo stati di diversa tradizione. Non è casuale che il primo leader a congratularsi con il 45esimo presidente degli Stati Uniti sia stato l’uomo forte egiziano al-Sisi. La vittoria di Trump è una splendida sorpresa anche per Erdogan e Assad, fiduciosi nell’opportunità di giocare un ruolo triangolare con Mosca e Washington, con il conio di un’inedita convergenza su nuovi vincoli di condotta e condizionalità per la nuova ‘guerra al terrore’. Per non parlare del dossier palestinese.

[do action=”citazione”]L’affermazione di Trump di “voler giocare un ruolo di primo piano nel conflitto israelo-palestinese” raggela gli abitanti di Gaza e Cisgiordania, dove l’arroganza dell’occupazione israeliana e la sua storica irriverenza nei confronti del diritto internazionale si sposano perfettamente con l’erosione dei presupposti liberali dell’ordine globale.[/do]

La promessa di Trump di riconoscere la capitale di quello che definisce “lo stato ebraico” a Gerusalemme (che le Nazioni Unite considerano sin dal 1947 corpum separatum, disconoscendo le rivendicazioni sia israeliane sia palestinesi di proclamarla capitale) suggella con ghigno cinico la fine di ogni aspettativa attorno allo stato palestinese.

Il passaggio da un’era di commerci e globalizzazione a una contrazione in blocchi regionali segnata da convulsioni nazionaliste, protezionismo e isolazionismo (con tanto di nemici interni identificati in migranti e minoranze) suona una pesante, lugubre nota che ha un’eco profonda nella Storia. Attraversate da opinioni pubbliche e flussi elettorali in libera uscita, le democrazie si rivelano particolarmente vulnerabili rispetto ad azioni di manipolazione informativa. Se ne è accorta persino Angela Merkel, che ha gli occhi sulle elezioni tedesche del prossimo anno e accusa Mosca di pirateria informatica.

Nella misura in cui i numeri mostrano che la vittoria di Trump è in realtà una sconfitta del partito democratico e di quel progetto centrista di ‘terza via’ coltivato sin dagli anni 90, essa rende imperativo un radicale ripensamento nel campo della guida e della partecipazione dei partiti democratici e socialisti in Europa, precipitati in una evidente impasse.