Lo scorso giugno gli Usa hanno condotto una missione segreta in Libia per prelevare il sistema contraereo russo Pantsir S-1 catturato sul campo di battaglia dalle forze del Governo di Accordo Nazionale (Gna) di Tripoli per trasferirlo nella base di Ramstein (Germania) e forse da lì negli Stati Uniti.

A riferirlo, dopo mesi di silenzio, è stato ieri il britannico The Times secondo cui lo scopo della missione era evitare che il sistema difensivo finisse nelle mani “sbagliate” di jihadisti e trafficanti d’armi. I Pantsir erano stati forniti dagli Emirati Arabi Uniti (Eau) all’autoproclamato Esercito Nazionale Libico (Enl) guidato dal generale Haftar ed erano stati molto utili nella sua offensiva contro Tripoli iniziata nell’aprile 2019.

Un’avanzata che sembrava trionfale fino al coinvolgimento diretto della Turchia che ha cambiato completamente l’inerzia del conflitto intra-libico. Da quel momento, infatti, Haftar non solo non è riuscito ad entrare nel cuore della capitale, ma è dovuto anche indietreggiare fin sulla linea di Sirte (a metà tra Tripoli e la cirenaica Bengasi), da mesi di fatto la frontiera tra le due macroregioni libiche della Tripolitania (ovest) e Cirenaica (est).

Sembrano lontani i giorni della guerra civile: sebbene fragile, dal 23 ottobre regge il coprifuoco tra il Gna e l’Enl. Da mesi, inoltre, si registrano discreti progressi politici. Ieri, ad esempio, il Paese ha vissuto una data importante: è scaduto infatti il termine per presentare le candidature per il presidente e i due vice del nuovo Consiglio presidenziale “ristretto” a tre membri in rappresentanza delle tre macroregioni libiche (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan al sud), oltre al premier del nuovo Governo transitorio di unità nazionale che dovrà condurre la Libia alle elezioni del 24 dicembre.

Il sistema è stato studiato in modo da garantire l’equilibrio tra est e ovest: se la presidenza andrà alla Cirenaica, la premiership dovrebbe andare alla Tripolitana e viceversa. I quattro candidati serviranno a compilare poi liste che saranno sottoposte dal 1 al 5 febbraio a un complicato meccanismo di voto da parte dei 75 membri del Foro del Dialogo Politico libico riuniti a Ginevra dalla Missione delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil).

Il Foro, convocato inizialmente a novembre a Tunisi, è formato da 13 membri della Camera dei rappresentanti di Tobruk (il braccio politico di Haftar), da 13 dell’Alto Consiglio di Tripoli e da 49 delegati selezionati dall’Unsmil sulla base di vari criteri geografici, politici e tribali (da più parte criticati).

Parallelamente a questo processo, c’è anche l’intesa per sette importanti cariche statali, frutto di un accordo avvenuto la scorsa settimana a Bouznika dal comitato 13+13 (13 membri della Camera dei rappresentanti di Tobruk e altrettanti dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli). Le sette cariche sovrane, tra cui quelle del governatore della Banca Centrale della Libia e del suo vicepresidente, saranno accettate solo dopo i lavori del Foro del Dialogo Politico di inizio febbraio.

Gli indiscutibili progressi politici, affiancati anche dall’ottima ripresa della produzione del petrolio, non devono però far dimenticare quanto la situazione resti instabile e come un eventuale fallimento dei vari piani diplomatici possa far ripiombare il Paese nel caos. I segnali di tensione ci sono già tutti: l’altra sera sono scoppiati violenti scontri a fuoco a Tripoli tra la Forza di Sicurezza Generale e la Forza di Deterrenza (Rada), entrambe sotto l’autorità del Gna. Senza dimenticare poi i problemi “atavici” legati alla presenza di gruppi armati e di mercenari e, ancor più drammaticamente, alle ingerenze straniere negli affari interni del Paese.

Emblematico, a tal riguardo, l’atteggiamento della Turchia, vera protagonista del dossier libico. Due giorni fa il ministro delle Difesa del Governo di Accordo nazionale, Salah al-Din al-Namroush, ha annunciato che 1.300 soldati libici hanno completato l’addestramento fornito dalle forze di Ankara nei centri di addestramento presenti in Libia. Parole che suscitano rabbia in Cirenaica dove i turchi sono visti come “crociati ottomani”.