A sentire l’ex presidente finladese e premio Nobel per la Pace Martti Ahtisaari, gli Stati uniti non mancano solo di strategia ma anche di una buona vista. Quella per riconoscere una buona offerta da una patacca.

La testa di Assad gli sarebbe stata servita su un piatto d’argento dal suo stesso alleato, la Russia. Ma gli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu (oltre a Mosca, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Cina) hanno rifiutato la generosa proposta convinti che il presidente siriano avesse i giorni contati.

Era il febbraio 2012: l’ambasciatore russo all’Onu, Vitaly Churkin, presentò in segreto un piano in tre punti che prevedeva l’uscita di scena di Bashar al-Assad a seguito di negoziati con le opposizioni moderate. «[Churkin] disse tre cose: primo, non dare armi alle opposizioni; secondo, avviare un dialogo tra opposizioni e Assad; terzo, trovare un modo elegante per allontantare Assad».

Il secco no all’apertura di Mosca, aggiunge Ahtisaari in un’intervista, derivò dalla convinzione di Francia, Washington e Londra che Assad sarebbe caduto comunque: «Nel 2012 perdemmo un’opportunità». L’opportunità di risparmiare centinaia di migliaia di vittime (nel febbraio 2012 il bilancio era di 7.500 morti, oggi è di 250mila), di evitare 4 milioni di profughi all’estero e 11 milioni di sfollati interni, la distruzione della ricchezza architettonica siriana, la frantumazione dell’economia. E forse di evitare l’avanzata di Isis e gruppi islamisti avversari o satellite, sulle macerie dello Stato siriano.

Come si dice spesso la storia non si fa con i se. Ma la rivelazione dell’ex negoziatore apre a questioni ancora attuali. Indebolisce ulteriormente l’approccio statunitense alla guerra civile siriana, subito diventata globale a causa delle mire degli alleati regionali Usa: Washington, che manca di una strategia comprensibile e univoca verso lo Stato Islamico, ha sbagliato nell’investire centinaia di milioni di dollari nel finanziamento di gruppi che non esistono più. E se con una mano rimpinzava le pance delle opposizioni in esilio, con l’altra si copriva gli occhi fingendo di non vedere che l’assenza dello Stato garantiva spazio di manovra ai gruppi estremisti. Peggio se l’obiettivo fosse stato proprio questo: distruggere la Siria per avere indietro un Medio Oriente più controllabile.

Ma le rivelazioni di Ahtisaari dicono anche qualcos’altro: Assad, l’alleato russo, non è intoccabile. Da anni Mosca insiste sull’impossibilità di giungere alla pace senza il presidente siriano. Eppure, appare chiaro che – al di là delle dichiarazioni ufficiali – Putin lo consideri sacrificabile. O almeno, lo considerava. Dopo quel tentativo del febbraio 2012, Assad ha risalito la china, seppur il territorio che controlli è molto più ridotto di quello di tre anni fa. Perché in questo arco di tempo ci sono stati l’interposizione russa alla guerra di Obama, nel settembre 2013; la scomparsa delle opposizioni moderate a favore di al-Nusra e Isis; la riabilitazione parziale di Damasco con lo smantellamento dell’arsenale chimico; lo storico accordo sul nucleare siglato dal 5+1 con l’Iran, primo sostenitore di Assad.

Oggi la Russia si gioca gli assi accaparrati con le vittorie diplomatiche, brandendo la minaccia di un intervento militare e criticando la strategia della coalizione: ieri ha accusato l’Occidente di non voler coordinare gli attacchi contro lo Stato Islamico con Mosca, mentre il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ricordava che il dialogo tra Mosca e Washington è «indispensabile» per porre fine alla crisi.

La risposta Usa è la stessa da giorni: la Russia sta imbastendo una base aerea nell’ovest della Siria da usare per un intervento militare al fianco dell’esercito governativo. Non passa giorno senza che funzionari anonimi o no non rilascino dichiarazioni sull’equipaggiamento russo in Siria: «Hanno spostato truppe e cose a Latakia, ciò suggerisce un suo uso come base aerea operativa», ha detto lunedì il portavoce del Pentagono Jeff Davis, mentre esperti che monitorano i satelliti indicavano nel dettaglio quanti mezzi e di che tipo siano già sul terreno.

Anche la reazione russa è la stessa: sosterremo Damasco nella lotta «al terrorismo dell’Isis – ha detto ieri il presidente Putin – e forniamo e forniremo l’assistenza tecnica e militare necessaria. Chiediamo ad altri paesi di unirsi a noi». La macchina neocoloniale è in movimento. Sullo sfondo degli interessi delle superpotenze resta un popolo devastato, mai interpellato.