La vera sfida degli ayatollah è evitare l’astensionismo. Il vincitore del voto di oggi per il Majilis (Parlamento iraniano), lo conosciamo: è il complesso militar-economico-religioso dei Guardiani della Rivoluzione.

I Pasdaran, la spina dorsale dei poteri forti nella repubblica islamica che dal 3 gennaio ha un martire supremo, il generale delle forze speciali Al Quds, Qassem Soleimani, assassinato dagli americani all’aereoporto di Baghdad. Era lui l’uomo che aveva rafforzato la Mezzaluna sciita da Teheran a Baghdad, da Damasco a Beirut, sfruttando il più clamoroso errore della politica estera Usa degli ultimi 40 anni: l’invasione nel 2003 dell’Iraq e l’abbattimento del regime di Saddam Hussein. Ed era stato Qassem Soleimani a tenere in piedi l’Iraq, a brandelli dopo la disfatta militare di Mosul da parte dell’Isis, e anche Bashar Assad.
Battaglie vinte ma non definitivamente, come dimostra Idlib, dove gli Stati uniti appoggiano la Turchia e i qaidisti: uno scontro feroce, oltre che una tragedia umanitaria immane, che potrebbe far saltare i patti Putin-Erdogan e travasarsi come in un vaso comunicante in Libia. E questo in un contesto regionale dove le rivolte in Libano e soprattutto in Iraq hanno messo in questione il controllo esercitato dall’Iran attraverso le affiliazioni confessionali sciite.

E sappiamo pure che a Teheran il tempo dei “falchi” e il risultato delle urne sono stati decisi, oltre che dalle dinamiche interne, dagli stessi americani che con Donald Trump nel 2018 hanno affondato l’accordo sul nucleare negoziato tre anni prima dai conservatori moderati. I più ottimisti ritengono che saranno proprio i “falchi”, rafforzati, a riaprire le trattative con Washington ma sicuramente non potranno farlo alle condizioni di Trump e della strategia della “massima pressione”.
Certo questo non è il momento delle “colombe”. Il presidente Hassan Rohani non poteva che uscirne indebolito, come sanno perfettamente a Washington che ai tempi di George Bush junior fecero di tutto per mettere in difficoltà il riformista Mohammed Khatami. Persino quando, dopo l’11 settembre 2001, offrì la sua collaborazione agli Stati uniti in ginocchio per gli attentati di Al Qaeda.

Ma un Iran moderato o “normale” non lo vuole nessuno. “Almeno fino a quando non diventerà come la Norvegia”, ha detto il segretario di stato Pompeo in un discorso del 13 gennaio scorso.

Non lo si vuole ai vertici ma soprattutto non lo vogliono gli Stati Uniti che devono sempre agitare uno spauracchio davanti ai loro alleati come le monarchie del Golfo: l’Arabia saudita – umiliata dagli attacchi agli impianti petroliferi dai ribelli Houthi yemeniti filo-iraniani – e gli Emirati sono i maggiori acquirenti di armi americane. Parlano le cifre: Riad e gli Emirati sono rispettivamente il primo e il terzo importatore di armamenti Usa e l’Arabia saudita ha una spesa militare inferiore soltanto a quella di Stati Uniti e Cina.

Al complesso militare dei Pasdaran, che spendono un quinto dei sauditi per la difesa, si contrappone un complesso militar-industriale occidentale nel quale, come affermava un tempo Frank Zappa, “la politica è soltanto la parte di intrattenimento”.

La “normalità” per l’Iran, dopo l’accordo sul nucleare del 2015, è stato un attimo fuggente. La repubblica islamica per Usa, Israele e gli impresentabili monarchi assoluti del Golfo come il principe saudita Mohammed bin Salman, l’assassino del giornalista Jamal Khashoggi, non dovrà mai essere davvero un Paese “normale”.

Le votazioni per i 290 seggi del Majilis sono una sorta di sondaggio di opinione tra 58 milioni di elettori per tastare il polso alla capitale e soprattutto a quelle provincie dove sono esplose le rivolte di novembre per gli aumenti del prezzo del carburante. Un’occasione per valutare gli strascichi lasciati anche dalla protesta anti-regime riaccesa – dopo il bagno di folla nazionalistico per i funerali di Soleimani – dal «guaio» dell’abbattimento per errore da parte dei Pasdaran del Boeing ucraino (176 morti).

Pur in un contesto autoritario il regime concede spazi di competizione politica – in Iran, a differenza di molti Paesi della regione si vota con regolarità dai tempi della rivoluzione nel 1979 – nei quali il popolo, con mille paletti (non esistono partiti ufficiali ma liste di aggregazione dei candidati) è chiamato al ruolo di fare da arbitro tra l’élite. Anche se questa volta a fare man bassa di voti dovrebbero essere i conservatori più radicali, visto che il Consiglio dei Guardiani ha squalificato migliaia di candidati concorrenti. L’élite sciita sa come difendersi dalla sorprese.

In realtà quello che importa alla Guida Suprema Alì Khamenei è avere un’affluenza consistente alle urne e vincere il boicottaggio dei riformisti, per rafforzare l’immagine della repubblica islamica di fronte ai suoi nemici e tranquillizzare gli alleati: dalla Russia, decisiva nella Siria di Assad, alla Cina, il maggior partner di Teheran, il vero pilastro della boccheggiante ”economia della resistenza”.