Shinjuku, uno dei quartieri centrali di Tokyo, è una delle zone che più si anima quando le luci del giorno cominciano ad affievolirsi e i neon dei locali si accendono punteggiando la lunga notte. Punto di attrazione per artisti e giovani fin dalla metà del secolo scorso, molte delle proteste che scossero il Giappone fra gli anni sessanta e i settanta ebbero luogo proprio qui. Shinjuku ospita una piccola zona conosciuta come 2 chome, e la vita notturna che qui si sviluppa è al centro di Boys for Sale, un interessante documentario che esplora la scena gay di Tokyo, con particolare attenzione verso bar e locali che sono di fatto veri e propri luoghi di prostituzione.

Diretto dalla giapponese Itako e coprodotto da Ian Thomas Ash e Adrian Storey, con quest’ultimo anche direttore della fotografia, il film sarà presentato al Cinema Massimo di Torino all’interno del Fish&Chips Film Festival – International Erotic Film Festival, domani sabato 20 gennaio.
2 chome ospita una dozzina di gay bar specializzati nella «vendita» di ragazzi per la clientela maschile: nel corso del documentario veniamo a sapere infatti che pagare per avere un rapporto sessuale con un altro maschio non è illegale in Giappone, mentre lo è fra due persone di diverso sesso. Il film si compone di interviste con una decina di urisen, questo è il termine che in giapponese indica un uomo che vende sesso ad un altro uomo, ed alcuni dei padroni di questi locali. La sorpresa fin dalle prime battute è venire a conoscenza che quasi tutti gli intervistati e la maggioranza di coloro che si guadagnano da vivere in questo modo, sono persone di tendenza eterosessuale finite a 2 chome per i motivi più svariati. Spesso si tratta di giovani fra i 19 ed i 25 anni scappati di casa, travolti dai debiti di gioco, in un caso particolare il debito è lasciato dal padre, oppure di giovani costretti a spostarsi a Tokyo dopo che il terremoto e lo tsunami del 2011 hanno raso al suolo la propria cittadina e con essa tutta l’economia della zona. Si tratta di giovani che si vedono costretti a vendere il proprio corpo a clienti di sesso maschile la cui provenienza sociale ed anagrafica varia molto, come dichiarato un po’ da tutti gli intervistati: da ottantenni pensionati a importanti politici, da personalità della televisione a impiegati statali.

Realizzato in circa un anno, dopo che produttore, regista e direttore della fotografia sono riusciti a conquistarsi la fiducia degli intervistati, il documentario ha un approccio molto delicato e mai facilmente moralista, anzi traspira dalle domande e dalla forma data al lavoro un assoluto rispetto per i ragazzi, anche quando emerge come quasi nessuno di essi si curi e conosca troppo le varie malattie che potrebbero venir loro trasmesse.

Tanto bilanciato è lo stile quanto esplicite sono le scene dei rapporti descritte dagli urisen, che non risparmiano i dettagli più «scabrosi», scene che vengono ricreate e messe sullo schermo attraverso un’animazione semplice, minimalista ma realista e quasi distaccata che ben rende la situazione di sfruttamento di questi ragazzi.

Altra parte molto interessante è quando due degli intervistati, in pochissime parole, riescono a gettare luce sui processi storici che hanno attraversato la zona, dapprima un’area di bordelli dove i ricchi abitanti di Tokyo venivano a soddisfare i loro piaceri, poi prima delle olimpiadi di Tokyo del 1964 «ripulita» anche conseguentemente alla messa fuori legge della prostituzione femminile ed infine, con ancora lo stigma di zona malfamata, diventata zona dei gay bar e urisen.

matteo.boscarol@gmail.com