All’arme! I barbari sono alle porte, e con essi il caos. Al profilarsi della possibilità – quasi una certezza – che tra qualche mese Syriza conquisti il governo di Atene, le Borse sono crollate. Ed è subito iniziata martellante la campagna politica e mediatica, oltre al lavoro ai fianchi (si parla di tentata corruzione) dei deputati delle minoranze del parlamento greco affinché concorrano a eleggere entro fine anno il candidato governativo alla presidenza della Repubblica, scongiurando il rischio di elezioni anticipate.

Tsipras è dipinto, anche dalla benemerita stampa italiana, come l’incarnazione dell’estremismo antieuropeo. Come colui che specula cinicamente sulle rovinose conseguenze dell’austerity: la disoccupazione al 28% (al 60% tra i giovani); stipendi da fame (un terzo dei lavoratori greci guadagna 300 euro al mese); una famiglia su cinque sotto la soglia di povertà. Eppure Syriza non chiede l’uscita della Grecia dall’euro ma la cancellazione del fiscal compact, la ristrutturazione del debito e la revisione del «piano di salvataggio» imposto dalla troika, che in quattro anni ha scaraventato il paese all’inferno. Allora perché queste reazioni isteriche? Perché l’appello al panico (la Grecia – si dice – non sarebbe più governabile e andrebbe di filato in bancarotta)?

Evidentemente c’è un rischio che non si intende correre. Che un paese dell’eurozona si ribelli per davvero alla morsa dei mercati speculativi e riesca a sottrarsi ai diktat della Bce e del Fmi. Dimostrando che riprendersi la sovranità è possibile, che c’è un’alternativa alla dittatura neoliberista che sta violentemente ridisegnando la mappa sociale e politica del continente. Questo è il «pericolo greco» che si vuole in ogni modo scongiurare, intanto mobilitando tutto un arsenale suggestivo e retorico utile ad allarmare un’opinione pubblica sì disorientata e confusa, ma soprattutto disillusa e risentita nei confronti di un’Europa matrigna che dissemina povertà, disoccupazione e ingiustizia.

In tutto questo, nessuno di quanti si limitano a diffondere, zelanti, l’allarme contro la temuta invasione barbarica trova quel grano di onestà per sviluppare la più scontata delle comparazioni. Per uno Tsipras che, nuovo Brenno, minaccia di ribellarsi al capestro dei mercati e delle oligarchie comunitarie, quanti riveriti politici, architetti di questa splendida Europa, hanno contribuito al disastro più che annunciato che, tra Maastricht, Lisbona e il fiscal compact, ha insediato uno dei più raffinati meccanismi di sfruttamento del lavoro subordinato e di distruzione dei diritti sociali e dei beni comuni che si potessero escogitare? Ce n’è di osannati e di ancora – anche in Italia – in servizio permanente effettivo nei più influenti palazzi del potere politico, finanziario e giurisdizionale. Senza enfasi si può affermare che essi sono tra i responsabili di una catastrofe sociale, politica e morale paragonabile a una (terza) guerra mondiale. Che non sia di moda sostenerlo non significa che non sia vero.

Sotto l’attenta regia americana, il processo comunitario ha privilegiato la ratio economica e la logica del neoliberismo. Questo è sostanzialmente vero sin dai tempi della Cee, ma da Maastricht in poi si è verificato un salto di qualità. I vertici politici e le tecnocrazie sono intervenuti con un piglio iperautoritario a senso unico: per liberare le forze del mercato (imprese e finanza) contro il lavoro vivo, precarizzato ed esposto agli effetti recessivi delle politiche monetariste e a un fortissimo dumping all’interno dell’Unione e in seno ai singoli paesi. Le società europee sono state trasformate in società di mercato, nello spazio di un’esasperata competizione per il profitto, libero da tutto ciò che potrebbe ostacolare la dinamica del capitale privato: dai diritti sociali alle tutele del lavoro, dai vincoli di una programmazione economica pubblica al controllo democratico sulle autorità e le politiche comunitarie.

Quando, nel 1991, si discusse del Trattato di Maastricht e poi, nel decennio scorso, dei Trattati di Nizza e Lisbona, vi fu chi mise in guardia sulle conseguenze che sarebbero immancabilmente derivate dall’abdicazione alla sovranità nelle mani del mercato e da un’unione monetaria fondata sui principi del monetarismo. E vi fu chi invece tirò dritto, disponendo della forza per imporsi. Ora non sarebbe il caso di fare un bilancio di quelle scelte, a ragion veduta? E di assumersi magari qualche responsabilità al cospetto della devastazione sociale, economica e politica che questa Europa produce?

Niente di tutto questo, ovviamente. Piuttosto, al profilarsi di una vittoria della sinistra in uno dei paesi dell’Unione, si brandisce il ricatto delle Borse, si invoca il caos, si cerca di suscitare il panico nell’opinione pubblica. Non vi è nulla di nuovo in tutto ciò, tant’è che viene in mente – l’analogia non scandalizzi – il crimine che ottant’anni fa, il 27 febbraio del 1933, spianò la strada al nazismo in Germania. Nelle intenzioni di Hitler e dei suoi l’incendio del Reichstag doveva evocare lo spettro del pericolo rosso e spianare la strada al regime. Il piano era ben studiato, difatti subito vennero cancellati i diritti civili e una settimana dopo i nazisti stravinsero le elezioni. Giocare con la paura della gente serve e può decidere di una crisi politica.

Ma qui l’analogia si ferma. Oggi in Europa, diversamente da quanto avveniva negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, il pericolo non viene da sinistra. Nemmeno in Grecia, dove proprio i nazisti lucrano sulla rabbia e sulla paura generata dalle politiche antisociali del governo nazionale e delle autorità comunitarie. Allora le reazioni di questi ultimi di due cose parlano sin troppo chiaro. Di una cieca irresponsabilità e di un radicato disprezzo per la democrazia. Che del resto è il fondamento su cui è stato costruito e via via «riformato» l’intero edificio istituzionale di questa Europa matrigna e senza popolo.