Il Tesoro dei Granduchi, al pianterreno di Palazzo Pitti, accoglie fino al 12 gennaio la mostra Plasmato dal fuoco, a cura di Eike Schmidt, Sandro Bellesi e Riccardo Gennaioli (catalogo edito da Sillabe). Contrariamente a quanto suggerirebbe il sottotitolo – La scultura in bronzo nella Firenze degli ultimi Medici (che allude alla mitica esposizione del 1974) – il percorso è molto più vasto. La ricomposizione degli sgoccioli della stagione medicea è, infatti, preceduta da un largo preambolo sulla riforma manierista, che anticipa l’orizzonte temporale addirittura alla fine del Cinquecento. Insomma, quasi due secoli di statuaria fiorentina.
All’inizio c’è Giambologna, il canale di comunicazione ideale tra la gloriosa storia della bronzistica rinascimentale e il dopo. Basterebbe la posa estrema del Mercurio del Bargello, oppure l’audace intreccio del Ratto delle Sabine in piazza della Signoria, a spiegare il nuovo segno che l’artista fiammingo imprime: in bilico tra equilibrio e instabilità, le sue figure si contorcono per aria, stirano le braccia, gesticolano. Reclamano un nuovo protagonismo e ci obbligano a girare attorno. E così fanno in mostra Nettuno, che emula in miniatura il gigante della fontana in Piazza Maggiore a Bologna (tranne che per la fisionomia michelangiolesca) e il Battista che gli è accanto. Ancora, la Venere al bagno di collezione privata, nell’inconcludenza voluttuosa di una diva ritirata in sé stessa, è rannicchiata come l’Afrodite di Doidalsa, ma si regge avventurosamente in punta di piedi su una colonna.
Lo slancio è tale che la parabola di Giambologna non si conclude con la sua morte, ma si dilata senza interruzione fino alla seconda metà del Seicento. La temperatura della civiltà artistica granducale cambia così soltanto nel 1670, con l’arrivo di Cosimo III. Il granduca mette in discussione tutto quanto è prodotto in città e indica un’altra strada fondando l’Accademia di Palazzo Madama, sede del ‘riassestamento’ dei suoi artisti entro i nuovi valori del barocco romano. Nel rilievo con il Tempo rivela la Verità di Massimiliano Soldani Benzi vediamo prendere radice per rifrazione la scultura berniniana della Galleria Borghese, ma con una teatralità nuova. Anche il Tempo che rapisce la Bellezza e il Mercurio e Argo di Giovanni Battista Foggini, vero e proprio deus ex machina delle fabbriche granducali, sono un omaggio ai suoi gruppi mitologici giovanili. Più in generale, però, non è tanto l’esuberanza di Bernini a colpire, quanto il filone classicista a lui contrapposto. Opere come la Crocifissione di Foggini, il Gesù e san Giovannino di Soldani Benzi o il Trionfo di Nettuno di Antonio Montauti offrono un saggio della somatizzazione locale della sobrietà antichizzante di Algardi.
Insomma, la scultura fiorentina rinnova le scorte saccheggiando Roma. Eppure non rinuncia alla costante rilettura della propria storia. L’antica sapienza tecnica della tradizione orafa non viene mai meno. Si associano profondamente all’identità cittadina, ad esempio, i numerosi Crocifissi sparsi lungo il tracciato (da quello di Giambologna della Santissima Annunziata alla Visione delle tre croci della beata Caterina de’ Ricci di Soldani Benzi). A significare il radicamento di questa tipologia, fino alle estreme conseguenze di ridurla a mera prova di bravura, si ricordi che – a detta del Vasari – quando giunse all’estremo della vita, allettato nello Spedale di Santa Maria Nuova, lo scultore Nanni Grosso rifiutò il conforto di un Crocifisso per il solo fatto che era «assai mal fatto e goffo» e pretese che i suoi ultimi minuti fossero sostenuti da un ben più soddisfacente Cristo di Donatello.
La mostra recupera il filo della vocazione eclettica per la plastica bronzea, mettendo in scena i molteplici mutamenti che l’incontro tra un medesimo soggetto, una stessa lega e artisti diversissimi possono aver prodotto. Forme autonome o a corredo di altre tecniche, dimensioni regolate al minimo e poi al massimo, superfici levigate oppure screziate, dorate e incandescenti oppure opache e verdastre. Si resta colpiti della quantità di aspetti che un solo materiale possa assumere. Tutti ugualmente clamorosi. Restano, invece, inesplorate le prove del connubio pittura/scultura con quadri come Lucrezia morente di Cesare Dandini e Mercurio, Erse e Amore del fratello Vincenzo, che sono scompagnati dai confronti metallici allusi in sede di catalogo.
Un fascino particolare emana l’allestimento delle statue equestri in piccolo, una peculiarità locale proiettata verso tutta l’Europa. Come in una coreografia da parata, Luigi XIII e Carlo Emanuele di Savoia di Pietro Tacca da un lato e Carlo II di Spagna e l’Imperatore Giuseppe di Foggini dall’altro (quest’ultimo inspiegabilmente al buio) sono esposti a raggio e sfidano all’esplorazione di sé nello spazio. Distanti quasi un secolo, le due coppie condividono il fondamento, ovvero il ritratto equestre con cui (dal Gattamelata in poi) lo spirito plastico dei fiorentini aveva adornato il mondo, e nello specifico l’ultima edizione, quella più spericolata del Filippo IV d’Asburgo di Pietro Tacca a Madrid, col cavallo quasi fulminato per aria.
I parametri di lettura nei confronti degli ultimi Medici sono oggi totalmente cambiati verso una considerazione sostanzialmente benevola. Alla prova dei fatti le loro strategie matrimoniali si rivelano tutte un completo fallimento. Perfino il tentativo di puntare su Francesco Maria, esponendolo al ludibrio di essere «cardinale ammogliato», si risolve in un ridicolo fiasco. Il susseguirsi di morti li disarma di ogni possibilità di ricambio e la chiusura dell’orizzonte granducale diventa un fatto inesorabile. Neanche la fragilità ormai cronica, però, riesce a incrinare la passione dei Medici per il bello.
Anna Maria Luisa lascia una serie di capolavori col ciclo a tema biblico che la mostra raccoglie nel suo insieme (per la seconda volta, dopo La principessa saggia del 2006) e che da solo vale l’ammirazione che l’ultima principessa medicea si è conquistata presso i posteri. Il bronzo si presta docilmente al vivo senso atmosferico da cui ognuna di queste composizioni è retta: notare per esempio, di Giovanni Camillo Cateni, l’onda del roveto ardente, elettrizzata di fiammelle, che conduce Dio a sovrastare Mosè.
Una significativa integrazione dell’excursus sulla bronzistica viene dall’ultima sezione con le porcellane della Manifattura Ginori. Sullo sfondo fatiscente del tramonto mediceo, Firenze evade in un sogno sincretistico che rianima nel medium nuovissimo della porcellana dura il ricco materiale antiquario delle Gallerie e lo associa ai frutti dell’arte moderna. La scultura fiorentina si veste di nuovi colori, secondo una storia codificata anche nella mostra La fabbrica della bellezza del 2017. La porcellana staziona a metà tra due mondi e proietta il Seicento verso il Settecento, il Barocco verso il Rococò, Firenze verso l’Europa.
L’arte granducale muore lentamente, ma con splendore.