Paul Schrader è una delle intelligenze filmiche più lucide in circolazione. Teorico del cinema e cineasta straordinario anche se per troppo tempo ridotto al ruolo di mero sceneggiatore scorsesiano, è in realtà riuscito a definire meglio dell’illustre e ingombrante amico la sua posizione nei confronti dell’industria del cinema statunitense che a più riprese ha tentato di ostracizzarlo.
Certo Schrader ha avuto vita infinitamente meno facile di Scorsese a Hollywood, poiché quest’ultimo, dopo la hybris di Gangs of New York, è riuscito, pur con risultati a nostro avviso estremamente alterni, a calare la sua poetica all’interno degli ingranaggi maggiori di Hollywood. Schrader, invece, nonostante il suo cinema abbia subito rarissime flessioni qualitative, considerato che Touch è un lavoro sul quale bisognerebbe assolutamente ritornare, dal 1997 di Affliction ha continuato a realizzare film di assoluto valore. Persino il tanto controverso Dominion: Prequel to the Exorcist, straordinario esempio di horror dalle atmosfere addirittura fordiane, si pensa sovente a Missione in Manciuria vedendolo, strappato ai più aspri conflitti con produzione, emerge recando i segni inconfondibili della voce e poetica schraderiana.
E se sino a Adam Resurrected gli intervalli fra un film e l’altro non superavano i tre anni, fra quest’ultimo e The Canyons (sugli schermi italiani da giovedì scorso) corrono ben cinque anni. Senza contare che è proprio The Walker, straordinario thriller politico memore de Il conformista, che permette a Woody Harrelson di mettere in luce sfumature del suo talento inedite sino ad allora e che lo hanno condotto agli apici di Rampart e Out of the Furnace.
Insomma il cinema schraderiano non si è mai fermato e The Canyons, che a molti è sembrato la rinascita di un autore smarrito, è in realtà solo la conferma del rigore di un cineasta che anche messo in un angolo ha continuato instancabilmente a lavorare e a pensare la presenza del cinema in un panorama massmediale in costante trasformazione.
Tanto si è scritto su The Canyons, e numerose sono state le imprecisioni riguardanti le modalità produttive adottate dal regista e sui conflitti con Lindsay Lohan che hanno segnato la lavorazione della pellicola. Senza contare le presenze di James Deen e di Bret Easton Ellis. Eppure se a partire da Affliction in poi Schrader ha continuato a riflettere sulla forma cinema mettendo in gioco il suo sguardo e le qualità plastiche del suo stile, con The Canyons il regista ritorna alla radice stessa di quel sexual-chic che a partire da American Gigolo ha trasformato radicalmente il cinema statunitense attraverso la mediazione manniana di Miami Vice e di Tony Scott e del suo Top Gun.
Terra desolata del cinema statunitense, la Los Angeles di The Canyons è attraversata da uomini vuoti di elliottiana memoria, ridotti a sagome post-pubblicitarie, devastati da un vuoto assoluto, come un buco nero del sentire che tutto risucchia instancabilmente. In una lunga intervista concessa a Film Comment, Schrader è stato precisissimo nel ripercorrere la genesi dell’horror vacui che strazia i suoi protagonisti, cosa che comunque non li assolve né agli occhi degli uomini né tantomeno agli occhi di Dio che dalle parti di Los Angeles ha smesso di farsi vedere da un pezzo.
Ciò che commuove profondamente del film di Schrader è la sua irriducibile presenza nell’oggi. The Canyons è uno dei pochi film realmente realizzati nel 2013, se ci è concessa la boutade. Schrader piange il cinema, come una lingua perduta delle gru, ma non i padri. Il suo è il primo film che sorge compiutamente dalle ombre di ciò che una volta è stato il cinema senza guardarsi indietro. In ciò Schrader è aiutato dalla sua natura sostanzialmente anti-cinefila. Al contrario di Coppola, Lucas e Spielberg, il calvinista Schrader è giunto al cinema dal Bilderverbot dei padri è pertanto non ha potuto commettere il parricidio virtuale dei suoi amici, utilizzando come grimaldello politico una certa idea di cinefilia.
Appurato che il cinema, così come l’hanno conosciuto i suoi amici e giunto a lui aggirando l’ostacolo di un’educazione religiosa rigidissima che a suo modo ha provocato un ritardo fertilissimo, Schrader non piange religiosamente un padre che è morto, ma lamenta laicamente l’assenza dei luoghi di culto. Calvinista sino in fondo, Schrader non sostituisce un padre con un altro, uno è già sufficiente, ma piange il venire meno di un sentire e dei luoghi in cui questo poteva essere espresso. Paradossalmente, The Canyons è il film cinefilo meno cinefilo mai realizzato. Ciò che mette in scena Schrader non è la fine del cinema ma una tragedia antropologica. Gli ultimi giorni della cine-umanità post-consumista e neo-liberista, tragicamente ignara che il Dio che piange non è mai nemmeno esistito. E se è esistito, l’umanità l’ha divorata da tempo immemore.
Ed è in questo vuoto che Schrader cala i suoi corpi bagnandoli di glaciali luci caldissime (ossimoro obbligato), come se il corpo celibe di Richard Gere avesse potuto partorire altri corpi simili a se stesso in una vertigine partenogenica nel quale lo specchio, osceno per definizione perché moltiplica gli esseri umani, si erge a orizzonte ontologico unico.
Come in noir di Jacques Tourneur virato a colori o un’autopsia che riverbera delle ritmiche squadrate degli anni Ottanta, come un tappeto synth dei Chromatics, The Canyons è desolazione purissima. Narcisismo isolazionista all’ennesima potenza. Non è un caso che Christian uccida dopo aver perduto la sua unicità nel corso della partouze durante la quale scopre che non può dirigere le vite degli altri.
Come in Imperial Bedrooms, si uccide per dimostrare che forse si è vissuto. Ma è una verifica incerta, per forza di cose.
Paul Schrader, oltre che confermarsi insieme a Coppola, l’unico vero modernista del cinema statunitense emerso dalla nidiata di talenti degli anni Settanta, si rivela, ancora una volta, cineasta dallo sguardo lucido, potente, implacabile.