Si intitola Alchimia e ha come sottotitolo Ars moriendi. Eppure, questa breve e intensa storia (Diabasis, pp. 73, euro 13) con la quale Davide Barilli si immedesima negli ultimi giorni del Parmigianino in preda a una febbricitante ricerca alchemica, in fondo non parla di morte, ma di ansia di vita. «Poche albe prima dello scoccare di quel 24 agosto dell’anno del Signore 1540, aveva bussato ai frati della chiesa dei Servi chiedendo, con furia da invasato, di esser sepolto nudo.

Andava gridando che la materia macerata, la putredine, non è che l’altra faccia della vita, che ogni misero alchimista lo sapeva e perciò voleva morir ignudo per tornare in vita. Era ricaduto poi nel delirio e aveva urlato in faccia al frate che voleva essere cacciato in fondo a una buca sul Po, spoglio di tutto, e sepolto lì; nudo come era nato, solo con una croce di arcipresso sul petto».

CON UNA LINGUA volutamente manierata per aderire al manierismo del pittore Francesco Maria Mazzola, nato a Parma nel 1503 (e per questo detto il Parmigianino), morto a Casalmaggiore nel 1540, Davide Barilli dà voce al finale corrusco di una vita artistica eccezionale. Non si fa cenno ai dipinti e agli affreschi che lo hanno reso famoso, non emergono i successi, ma i tormenti che, a ben vedere, sono sempre il sale della creatività perché i capolavori non nascono da un’appagante serenità, ma dalle ossessioni e dalla visionarietà.

COME SE FOSSERO degli alter ego del pittore, Barilli si inserisce nel sentire di altri personaggi che agiscono in quegli stessi giorni e che, come lui e come in una maledizione, resteranno imbrigliati in un destino finale, ma forse non definitivo. A Morbino, mezzo uomo e mezzo uccello che vive sulle alpi Apuane, il Parmigianino ha chiesto di cavare dalle rocce il raro cinabro dal quale spera di estrarre l’oro che gli servirebbe per completare gli affreschi della chiesa della Steccata, a Parma, committenza che non concluderà e che gli costò un contenzioso legale, due mesi di carcere e l’allontanamento dal cantiere. Morbino porta a termine il compito che tuttavia lo conduce a una fine folle e distruttiva.

C’è lo scalpellino apuano che dovrebbe portare al Parmigianino il cinabro, ma non ci riuscirà per un imbroglio subìto e quella consegna mancata lo ossessionerà fino agli ultimi giorni. C’è Gottardo, maestro di alchimia di Parmigianino, che ogni anno risale il Po e il Taro nella speranza di trovare ciò che ha sognato, ovvero il punto in cui le acque prendono «la direzione contraria di quella che la natura aveva loro concesso».

IN QUESTO FINE VITA dalle tinte ctoniche, che Paolo Lagazzi nella sua postfazione definisce «una lucida e febbrile rêverie», ci si addentra in paesaggi pietrosi e acquosi, su per monti e giù nei fiumi, lungo argini e dentro boschi umidi in un intreccio di senso del fallimento e sete di ricerca, consapevolezza della fine e del divenire, ars vivendi accanto all’ars moriendi.

LA SCRITTURA POTENTE e vivida immerge il lettore dentro un’esperienza, come se si fosse lì, in quel momento, con Morbino, il Parmigianino, Gottardo, dentro le loro ossessioni che, quando sentono la vita sfuggire e i progetti svanire, diventano inevitabilmente smaniose e folli.

Di tutto ciò, che cosa resta a chi resta? Nel caso del pittore saranno le opere a dircelo. Autoritratto entro uno specchio convesso, Madonna dal collo lungo, la Pala di Bardi e quella di Casalmaggiore, le Tre vergini sagge e tre vergini stolte, per citarne solo alcune, testimoniano una visione del mondo che andava oltre e che per questo è diventata universale.