Lo abbiamo atteso per dieci anni e finalmente è stato presentato al festival BilBolBul di Bologna un mese fa. Big Questions, fumetto culto dello statunitense Anders Nilsen, pubblicato da Eris Edizioni, è importante perché affonda nelle possibilità del linguaggio attraverso le grandi domande del titolo, alle quali si occupano di dare risposta un gruppo di uccellini e qualche umano. Un libro con una gestazione lunga e complessa, della quale abbiamo parlato con il suo autore.

Prima era una storia su un quaderno, poi un’autoproduzione, poi il libro pubblicato da Drawn&Quarterly nel 2011. Mentre Big questions cresceva, tu sei diventato adulto: le grandi domande sono sempre state lì, o puoi dirci in quale momento le chiacchiere degli uccelli protagonisti hanno preso quella piega?
Gli uccelli sono sempre stati dei piccoli filosofi amatoriali. Le prime strisce furono realizzate durante il mio ultimo anno di università, quando avevo 22 o 23 anni e la storia è in un certo senso un passaggio all’età adulta sia per gli uccelli che per il personaggio dell’Idiota. Le domande che si pongono all’inizio del libro sono versioni di quelle che mi facevo io al tempo. Ero uno studente d’arte serio e pensieroso, ma allo stesso tempo ero cosciente della presunzione che comportava il solo fatto di esserlo. Gli uccellini erano un modo carino sia per porsi onestamente domande sulla vita, con le quali tutti facciamo i conti, sia per provare a prendermi meno sul serio. In un certo senso l’intero libro è un’estensione delle domande dirette delle primissime pagine.

Per il lettore è un po’ destabilizzante che con una apparentemente semplicissima linea chiara, tu riesca ad affrontare temi complessi tra i per esempio quali il perché della vita, o il nostro rapporto con la morte. Il contrasto tra lo stile e i contenuti è stato intenzionale?
Credo di sì, ma devo precisare che quando ho iniziato non sapevo esattamente cosa stessi facendo. Non volevo che lo stile del disegno fosse troppo espressivo o troppo cartoonesco, che attirasse troppo l’attenzione. Mi piaceva che sembrasse più o meno realistico, semplificando il concetto. Nei film per esempio non mi piace che la musica ti suggerisca troppo insistentemente come sentirti o che i colori siano tutti virati al blu per mostrarti che il personaggio è depresso. Per questa storia avevo bisogno di un disegno diretto e che il senso di smarrimento o di spaesamento venissero dall’interazione tra i personaggi, dalla storia, non dallo stile con cui era disegnata. Ho lavorato anche con altri stili-ogni storia richiede mezzi leggermente differenti per essere raccontata, ma il mio approccio più compiuto alla linea chiara è stato proprio quello di Big Questions.

Quest’edizione tanto attesa è completata da una postfazione e da una serie di appendici, nelle quali chiarisci che il libro è il risultato di una serie di momenti, un progredire fatto di intuizioni. Penso a «Spring», la poesia di Edna St Vincent Millay che citi tra le tue influenze, o alla comparsa dell’ombra dell’aereo sulla casa, che cambia la storia. Questi elementi ti hanno aiutato a continuare a scrivere? Non credi che ognuno di essi portasse con sé altre domande?
Sì. L’inizio è avvenuto in un paio di modi diversi. Quando ho iniziato, come dicevo, non sapevo bene cosa stessi facendo, poiché non avevo mai fatto un fumetto serio, ma ero molto motivato a lanciarmi nell’impresa. Ci pensavo da anni e così realizzai un paio di autoproduzioni. Il mio cervello stava intanto cominciando a raccogliere spunti e idee, dalle conversazioni con gli amici, dalla difficoltà di diventare grandi, dalle canzoni raccolte in una compilation in cassetta. Molte non erano adeguate, e sono rimasti bozzetti incompiuti, altre invece funzionavano, erano interessanti e pian piano si sono collegate nella mia testa. Poi quando mi sono rimesso al lavoro sulla terza parte, ho iniziato a inserire un po’ di casualità giusto per vedere come si sarebbero comportati i personaggi. Allora anche la storia ha mostrato le proprie esigenze, nel momento in cui i personaggi avevano le loro motivazioni, il mio lavoro è stato semplicemente quello di registrare le loro interazioni.

Gli uccelli sono testimoni di un incidente aereo e delle relazioni tra il pilota superstite e l’Idiota, la cui casa e nonna vengono spazzati via nell’impatto. Il tuo libro è comunque pieno di filosofia e spiritualità, che si esprimono a livello grafico con disegni ripetitivi e delle illustrazioni simili a mandala, che interrompono lo scorrere della storia. Cosa hanno in comune la creazione artistica e la meditazione o la pratica spirituale?
Si può rispondere a questa domanda in molti modi, ma per me la spiritualità, o almeno la religione, ha sempre a che fare con le storie. L’evoluzione ha forgiato le nostre menti affinché creassero significato, affinché riconoscessero certe strutture. Siamo creature fatte così, che ci piaccia o meno. Guardiamo l’universo e costruiamo significato da ciò che vediamo. Questo spesso ha sancito il proliferare di storie sul nostro luogo nel mondo e ha favorito l’invenzione di forze invisibili o divinità che riempissero gli spazi privi di significato, quindi anche la comparsa della religione.

Questo può di essere di grande aiuto per certe persone ma sfortunatamente anche molto dannoso per altre. Sì, credo che il racconto e l’interpretazione delle storie, siano espressioni fondamentali dell’essere umano. La mia famiglia era religiosa e mio nonno, un pastore luterano, ha passato la vita a raccontare e interpretare le storie della Bibbia, che è una famosa raccolta di storie di successo. Io non sono credente, ma ho sempre pensato che ciò che faccio sia molto vicino a quello che faceva lui. La meditazione, per come la intendo, è invece un modo per liberarsi delle aspettative della mente verso le storie e la creazione di senso. In piccola parte sto cercando di usare le storie per sovvertire le storie stesse: utilizzo i pattern delle storie per segnalare le possibilità di queste strutture.

La casualità che regola il nostro mondo è utilizzata nel libro per spiegare ciò che accade, ma la morte, così come nella vita reale, è sempre presente. Alcuni degli uccelli muoiono nell’esplosione di una bomba che pensano essere un uovo. Uno dei superstiti non cessa di piangere vicino alle ossa dei compagni morti. Questa parte è ispirata alla nostra reazione collettiva agli attacchi dell’11 settembre?
No, ho disegnato tutto prima; c’è un aereo che si schianta contro una casa, e anche quello è stato disegnato molto prima degli attacchi al WTC, ma pubblicato un anno dopo. Ero un po’ preoccupato che quell’elemento venisse associato agli attacchi, perché non era quella l’ispirazione. Quella parte del libro riguarda il confronto con la morte e il senso di colpa dei sopravvissuti, è il risultato del gioco di relazione tra i personaggi e gli eventi che scaturiscono dalla morte. Sono cresciuto in una famiglia politicizzata (oltre che religiosa, ma dall’altro ramo) quindi in parte mentre crescevo ho preso coscienza del fatto che nel mondo succedevano cose orribili, dalle quali io ero ben isolato e lontano, e che molte di queste dipendevano dal mio governo. Il mio libro precedente, Dogs and water, è più esplicito in questo senso. Forse il personaggio di Betty che porta il lutto, traduce questa consapevolezza. Il libro non riguarda l’11 settembre ma ci sono coincidenze: molti americani che fino al momento non avevano fatto attenzione alle conseguenze della politica estera degli Stati Uniti, hanno dovuto confrontarcisi. Direi che si tratta di come ci rapportiamo con la morte e con la violenza e di come immaginiamo il nostro posto nel mondo, quando sappiamo che questo è solo una parte del paesaggio.

Nel tuo libro metti in discussione le facoltà umane e animali (gli uccelli parlano, hanno personalità e carattere mentre l’idiota è privo d’intelligenza), nel loro rapporto con l’elemento naturale. È un tentativo di rispondere alla sempiterna domanda su quale sia il senso della vita?
Hahaha, certo. Ma in fondo, non vale per ogni libro? Quindi in parte è così, ma è vero anche il contrario: il libro non è concepito come un trattato filosofico e spero sia più divertente da leggere. Tra l’altro non sono molto d’accordo sul fatto che la vita debba aver un senso che dobbiamo scoprire, o che se ci fosse, allora sarebbe soltanto uno e applicabile a tutti. Ho giocato nella stessa area di prova di quella domanda ma ho fatto sì che non divenisse troppo seria né che rovinasse i castelli di sabbia che stavo costruendo.