Trovarsi di fronte a una chitarra o a un pianoforte appartenuti e suonati da un proprio beniamino può essere un’emozione, e varie mostre monotematiche – da Bowie ai Pink Floyd ai Rolling Stones e via così -, o musei come il British Music Experience di Londra (un fantastico viaggio nel meglio del rock inglese dai tempi dello skiffle ai primi anni Duemila, che purtroppo però ha chiuso ormai da tempo) o quello della Pop Culture di Seattle, hanno dato ai fan la possibilità di ammirare da vicino strumenti – e non solo – che hanno creato capolavori indimenticabili. Mai però, fino ad ora, ci si era trovati in un’unica occasione davanti a una serie di strumenti particolarmente iconici e fondamentali nella storia della musica moderna. A colmare questa lacuna ci ha pensato il Metropolitan Museum of Art di New York che, fino al primo ottobre, accoglie nei suoi spazi la mostra Play It Loud. The Instruments of Rock & Roll, che già dal sottotitolo mette in chiaro le cose, ossia una raccolta, unica e incredibile, di strumenti che hanno fatto la storia del genere a partire dalle sue origini, per la gran parte donati dalla Hall of Fame, dagli stessi artisti o dai loro eredi e da alcuni tra i più grandi collezionisti al mondo. Questa esposizione, insieme ad altre due iniziative sul punk, e di cui parleremo più avanti, ci ha dato l’occasione per un viaggio nella Grande Mela.
CHITARRE
Ad accoglierci è subito uno dei pezzi forti della mostra: la chitarra dell’inventore del rock’n’roll, Chuck Berry, e poco più in là un pianoforte appartenuto a un altro rocker della prima ora, Jerry Lee Lewis. La mostra, co-organizzata dal curatore artistico del Met, Jayson Kerr Dobney, e dalla Rock & Roll Hall of Fame, si propone l’intento di esaminare l’impatto che la musica rock ha avuto nella società e nella cultura, e lo fa attraverso ben 130 strumenti, oltre che con poster e abiti di scena, che ne hanno segnato fortemente l’ascesa. Come prevedibile a fare la parte del leone è lo strumento per eccellenza del rock, la chitarra, di cui viene raccontato e rappresentato lo sviluppo, partendo dagli esperimenti di Les Paul – una delle tre chitarre da lui costruite nel 1942 e chiamate Klunker -, per arrivare al primo prototipo Fender del 1949, da cui sarebbero nate la Esquire e la Broadcaster, più tardi rinominata e conosciuta come Telecaster, fino alla risposta della Gibson del ’52, la prima Les Paul (ideata ancora una volta dal visionario chitarrista e inventore statunitense). Ma ovviamente ad attrarre l’attenzione del visitatore sono i pezzi appartenuti ad alcuni dei più grandi musicisti della storia, a partire come detto da Chuck Berry per passare a Buddy Holly, a Elvis Presley, a George Harrison e John Lennon, a Jimmy Page, di cui sono presenti varie chitarre tra cui due Les Paul, compresa quella nera che comprò nel 1960 e utilizzò nei primi anni della sua carriera, rubatagli nell’aprile 1970 all’aeroporto di Minneapolis e di cui tornò in possesso nel 2015.
Proseguendo si giunge in una stanza dove a colpire sono alcuni modelli innovativi come la Airline della Valco del 1964, «indossata» da Jack White ai tempi dei White Stripes, e la chitarra disegnata da Annie Clark, vero nome di St. Vincent, e assemblata dalla Ernie Ball Music Man due anni fa. Accanto a queste troviamo una Telecaster del ’73 con cui Prince celebrò il suo ingresso nella Rock & Roll Hall of Fame nel 2004, proponendo una versione del capolavoro beatleasiano While My Guitar Gently Weeps, la celeberrima Blackie di Eric Clapton, la Telecaster (Micawber) che lo stesso Slowhand regalò a Keith Richards dei Rolling Stones e che da Exile on Main Street ne caratterizzò il suono, grazie ad accordature aperte, non convenzionali, e all’assenza, voluta, di una delle sei corde; e poi, via via, strumenti appartenuti a Tom Morello dei Rage Against the Machine, a Stevie Ray Vaughan, a The Edge, a Angus Young, a Jerry Garcia, a Jeff Beck, a Pete Tonwshend…
BASSI E TASTIERE
Due stanze sono dedicate agli altri strumenti del rock – bassi e tastiere (gli organi e i synth di Keith Emerson, tra i tanti) ma anche strumenti meno «rock», come un dulcimer utilizzato da Brian Jones per brani come Lady Jane o I Am Waiting, il flauto di Ian Anderson, il mandolino suonato da Peter Buck dei Rem in Losing My Religion o il sitar di Ravi Shankar -, ma sono gli spazi successivi che lasciano con la bocca aperta gli appassionati. Si entra in una stanza dove su quattro schermi sono proiettate interviste a quattro artisti che hanno rivoluzionato il modo di suonare la chitarra: i già citati Jimmy Page e Keith Richards, e poi Eddie Van Halen e Tom Morello. Subito dopo ci si imbatte in un futuristico pianoforte, quello di Lady Gaga, e poi ecco le chitarre di Prince, ai tempi in cui si faceva chiamare Tafkap, ancora chitarre con disegni psichedelici (quelle di Clapton e Jack Bruce ai tempi dei Cream), la mitica Gibson a doppio manico di Page, creata per poter suonare dal vivo Stairway to Heaven, la folle chitarra Hamer a cinque manici di Rick Nielsen dei Cheap Trick, frammenti di chitarre di Jimi Hendrix e di Pete Townshend (e l’intero set di strumenti degli Who, compresa la batteria di Keith Moon), fino a chiudere con la mitica Fender Stratocaster con cui Hendrix si presentò a Woodstock e donata dal citato Museum of Pop Culture di Seattle.
Sebbene molti appassionati potranno notare alcune mancanze e lacune significative (ne potremmo citare decine ma quelle che ci sono saltate all’occhio immediatamente sono l’assenza di oggetti di band iconiche quali Pink Floyd, Queen, Deep Purple, Black Sabbath o di artisti come il citato David Bowie, gente che ha indubbiamente scritto pagine fondamentali del r’n’r), la mostra, che si chiude con dei frammenti video che riprendono alcuni degli artisti con gli strumenti presenti nell’esposizione, rappresenta, come detto, un unicum nella storia del rock, cosa che non possiamo dire delle altre due a cui abbiamo avuto modo di assistere.
SGUARDO SUL PUNK
La prima si intitola Too Fast to Live, Too Young to Die: Punk Graphics 1976-1986 e occuperà fino al prossimo 18 agosto due piani del Museum of Art and Design, in Columbus Circle, la seconda è Punk Lust: Raw Provocation 1971-1985, al Museum of Sex, sulla Fifth Avenue, fino al 29 novembre. In quest’ultima viene scandagliato il ruolo e la filosofia della cultura punk in relazione al linguaggio della sessualità, sia nell’approccio visuale che in quello dei testi delle canzoni, tanto come provocazione politica quanto come mero desiderio, il tutto attraverso oggetti vari, vestiti, manifesti, video e altro; un aspetto che in questi termini non era stato ancora trattato «visivamente» a certi livelli (mentre ovviamente lo è stato dal punto di vista giornalistico e sociologico) e che crea il giusto interesse per gli appassionati, anche se, in definitiva, la esigua proposta, che si sviluppa in un unico ambiente, e il prezzo di ingresso (che però dà accesso anche all’intero museo) possono lasciare qualche perplessità. Perplessità che invece restano per la mostra al Mad. La raccolta qui ha come fine quello di esplorare la scena punk e post-punk del decennio 1976-’86 dal punto di vista dell’iconografia e della grafica, presentando perlopiù manifesti, poster, magazine e fanzine collegati ad alcuni dei gruppi che hanno fatto parte di quelle scene, dai classici Sex Pistols, Clash, Ramones e Joy Division ai meno noti X Ray Spex e Plasmatics. La divisione per tematiche – parodie e pastiche, le tecniche utilizzate, la fantascienza e l’horror, i fumetti, il coinvolgimento sociopolitico ecc. – è l’aspetto più interessante della mostra ma quello che manca è la «novità», il «mai visto», insomma quel qualcosa che possa effettivamente attrarre tanto chi ha vissuto quell’epoca quanto chi, pur non avendola vissuta per questioni anagrafiche, ha però potuto assistere alle tantissime mostre susseguitesi in giro per il mondo dalle celebrazioni per i quarant’anni del punk, nel 2017, ad oggi.