Secondo il poeta afroamericano Eugene B. Redmond, negli anni Quaranta, «quand’ero ragazzo, tutti volevano boxare o suonare uno strumento»; dunque l’unione «sacra» tra black music e sport, cementata da esempi poderosi, non ha bisogno di teoremi. L’ultimo arriva dal basket con Kareem Abdul-Jabbar. Avete presente il gancio-cielo? L’ha inventato lui, uno che vola sempre alto, non solo per andare a canestro. Dopo il ritiro ha scritto molto, spesso per dare un esempio alla sua comunità, quella afroamericana di Harlem. Un eroe umile che parla poco di sé e tanto dei personaggi dai quali ha imparato a stare Sulle spalle dei giganti, come spiega il titolo del suo libro (traduzione di Alessandra Minestrini, Add, pp.352 , euro 19,00).
Se non è necessario giustificare il parallelo tra sport e musica nera, disegnarne un quadro ci aiuta a capire perché oggi molti atleti attivi (o dopo il ritiro) si dedichino alla musica, in particolare all’hip hop (Shaquille O’Neal, Kobe Bryant, Ron Artest). È successo al mastodonte imbolsito Wayman Tisdale, passato dal basket al basso e allo smooth jazz radiofonico. Qualche dj direbbe che musiche come quelle del suo disco Face to Face (Atlantic, 2001) sono «contemporary» anche se nelle dita gli scorre il funk anni Settanta. Un altro esempio è Bernie Williams, di origine portoricana, giocatore di baseball con gli Yankee e chitarrista fusion. E se vogliamo raccontarla, questa storia di sport e musica nera, dobbiamo iniziare dal baseball. Proprio nel sottobosco del baseball californiano sarebbe spuntato per la prima volta il termine «jazz», comparso il 2 aprile 1912 sul Los Angeles Times, con l’espressione usata da Ben Henderson, lanciatore dei Portland Beavers, che descrive un nuovo tiro: «L’ho chiamato “palla jazz”, perché oscilla e non puoi proprio fare niente per prenderla (Anna Harwell Celenza, Il jazz all’italiana, Carocci, 2018).
SFIDA REALE
La contiguità semantica conferma il ménage a trois di baseball, pugilato e jazz. Pensiamo ai tre significati diversi del termine swing. Nella boxe lo swing è un pugno laterale, nel baseball un movimento della mazza che produce una palla insidiosa e in musica etichetta il genere in voga nell’America prebellica. Tre mondi permeabili, non solo a parole. Babe Ruth mitico giocatore di baseball anni Venti era un fanatico dell’hot jazz, amico di Bix Beiderbecke e allievo di sassofono di Paul Whiteman, che a sua volta da giovane era stato un peso massimo niente male. Un bel giorno venne organizzato un finto match tra Whiteman e Ruth, «arbitrato» dal compositore di Stars and Stripes Forever John Philip Sousa! Tre sovrani sullo stesso ring: il «re delle marce» Sousa, il recordman del baseball Babe Ruth e Whiteman, auto incoronatosi «re del jazz».
«Quando tra duemila anni studieranno la nostra civiltà, l’America sarà ricordata solamente per tre cose: la Costituzione, il jazz e il baseball», ha proclamato Gerald Early, consulente dei documentari Baseball (1994), Jazz (2001), e Unforgivable Blackness: The Rise and Fall of Jack Johnson (2005), del regista Ken Burns. Se alla costituzione sostituiamo la boxe di Jack Johnson otteniamo un perfetto immaginario Usa. L’impasto di guantoni, sassofoni e mazze veniva testimoniato dai cronisti degli anni Venti nelle pagine brevi, odorose di alcool di chi (come Damon Runyion e Ring Lardner) era impegnato a vivere «fast and furious», mica a stare in ufficio a pigiare tasti. La narrativa ha fiutato presto sangue, sudore e lacrime: nel baseball, con Bernard Malamud (Il migliore, 1952) e Philip Roth (Il grande romanzo americano, 1974), nella boxe con Norman Mailer, La sfida (1975), o con Toni Morrison, Jazz (1992) sulla vita di Harlem, tra musica e ballo. Tutti mondi che vivono in una sorta di perpetuo agonismo. Le orchestre swing negli anni Trenta e Quaranta si sfidano nelle sale da ballo a colpi di sassofoni in vere e proprie «battaglie». Kareem Abdul-Jabbar rievoca i fasti del Renaissance Casino di Harlem, una ballroom dove oltre a ascoltare le big band negli intervalli si giocano partite di basket e si forgia la squadra dei Rens, in grado di battere i fortissimi Celtics bianchi, presto emulata dagli Harlem Globetrotters. Quel club fu uno snodo: costruito da capitalisti neri, ospitava la crema di quanto accadeva nel quartiere nero di Manhattan. Riunioni politiche, proiezioni cinematografiche, opere teatrali, concerti di orchestre swing con annesse sfide sulla pista da ballo, incontri di boxe con sul ring stelle alla Joe Louis. Nel periodo dell’Harlem Renaissance il locale – oggi demolito – portava il soprannome Black Mecca.
Le battaglie tra swing band possono essere assimilate a quelle tra squadre di basket, con solisti e collettivi che si contendono la scena e condividono gli spazi dedicati al tempo libero della comunità di colore. Nell’autobiografia Good Morning Blues (Minimum Fax 2008), Count Basie evoca match con Lionel Hampton, Bennie Moten, Chick Webb: episodi descritti dai critici musicali con il linguaggio rozzo delle cronache sportive. Le sale da ballo ospitavano gare tra big band e portavano sul dancefloor ballerini capaci di danze acrobatiche, con movimenti rubati all’atletica. Non è casuale nell’opera Porgy and Bess dei fratelli Gershwin il soprannome del sulfureo spacciatore Sporting Life, maschera letteraria di un certo demi-monde afroamericano.
DUE STRADE
Per decenni sembrò che i neri avessero due sole strade per emergere: il pugilato e la musica. Miles Davis, buon pugile dilettante, ha dato lustro all’incontro tra boxe e jazz, incidendo la colonna sonora funk rock per un docu-film sulla vita di Jack Johnson. Il primo campione nero dei massimi, il primo eroe afroamericano in un Novecento giovane.
Jack era dinamite: amante del lusso, contrabbassista e cantante, impavido donnaiolo (che ha sposato tre bianche: ecco il peccato mortale contro l’America puritana). I visi pallidi biliosi cercarono qualcuno che con un pugno lo rispedisse nel buco dal quale era uscito. La «grande speranza bianca» divenne James Jeffries, ma Jack lo buttò giù (1910). I neri si riversarono nelle strade a festeggiare e i bianchi a sfogare la rabbia. Il risultato furono una ventina di morti, quasi tutti afroamericani, numerosi feriti e svariati tentativi di linciaggio. La linea del colore subiva i primi «colpi»(non metaforici) nonostante gli incontri generassero rozzi miti razziali. I pugili bianchi sono i più forti. Solo i neri sanno suonare il blues. Strettoia svelta a intasarsi: da rivalità sociale e culturale si approda alle teorie suprematiste. Gli Usa non perdonarono Johnson e lo mandò in carcere con il Mann Act, la legge usata come clava in caso di pruriti sessuali dei personaggi scomodi dello star system. Sotto la stessa mannaia finì anni dopo il re del rock’n’roll Chuck Berry, incontenibile nelle pulsioni sessuali, ma soprattutto reo di iniettare il virus del rock nero nei corpi degli adolescenti bianchi.
Negli anni Cinquanta il mito del ghetto divenne Sugar Ray Robinson, il più cool di tutti: ingioiellato, impellicciato, circondato da donne bellissime. Si allenava col jazz (ma guarda!) e possedeva un nightclub ad Harlem dove ingaggiava il virtuoso del sassofono Charlie Parker, lui che tirava pugni con una tecnica sopraffina definita «da violinista». Andò pure in tour con Count Basie (un altro fanatico del ring) e al posto di demolire avversari, mostrava le proprie qualità da intrattenitore. Miles Davis disse basta alla droga per emulare Sugar Ray, mentre al pianoforte del suo quintetto in quegli anni militava Red Garland, altro frequentatore di palestre. Sonny Rollins, dominatore nella categoria «sassofonisti tenori» era amico del campione nei mediomassimi Archie Moore, il re del KO.
E se oggi c’è il rap ieri i pugili-musicisti neri si dedicavano al r’n’b o al soul. Molti hanno iniziato da pugili prima di realizzare quanto fosse più desiderabile suonare che essere suonati, come fecero Jimmy McCracklin o Lee Dorsey, protagonisti del r’n’b negli anni Sessanta. Il futuro fondatore della Motown Berry Gordy Jr abbandona la scuola per la boxe ma poi trova la via dello showbiz scrivendo Reet Petite, portata al successo da un altro pugile mancato, Jackie Wilson, che sfruttò il gioco di gambe sul palco. Per anni il ring fu un crocevia musicale e sportivo. Ogni evento portava con sé un parterre de rois incredibile. Per «il match del secolo», Joe Frazier contro Muhammad Ali (Madison Square Garden, 1971), Frank Sinatra, un fanatico dei guantoni, venne ingaggiato come cronista dalla rivista Life. (Frazier, fuori dal quadrato, si atteggiava a cantante di stampo sinatriano, pur avendo la voce di un gallinaccio). Il match tra il Frazier pro-Vietnam e un Ali anti-miltarista (che aveva pagato con il carcere l’obiezione di coscienza) fu uno epico scontro di stili pugilistici e visioni dell’America. In quel momento vinsero (ai punti) Frazier e la guerra.
Il critico musicale Dan Morgenstern ricorda che per festeggiare il campione si tennero contemporaneamente due party; in quello ufficiale suonava l’orchestra di Duke Ellington, nell’altro le big band di Basie e Buddy Rich. La rivincita di Muhammad Ali e della ribellione black arrivò presto, nel 1974, contro il nuovo detentore del titolo, George Foreman. Il luogo prescelto per l’incontro fu la capitale della Repubblica del Congo, Kinshasa: simbolo del risveglio del continente africano e di riscatto per i neri oppressi. Il claim scelto per il nuovo incontro del secolo fu Rumble in the Jungle.
Ecco ripartire il gran circo: George Foreman, giovane coolster apolitico, contro Ali, un predicatore fuori dal ring e una volpe sul quadrato. Foreman era l’ennesimo peso massimo nero sensibile alla musica, se dobbiamo dar credito alla sua affermazione, «il pugilato è come il jazz: più è buono e meno la gente l’apprezza» e, racconta Norman Mailer, si allenava con I Love the Lord di Donny Hataway (1973).
Ali, amico di Sam Cooke, ha ispirato molta musica nera, come Black Superman (1975), mid-tempo reggae del britannico Johnny Wakelin o il blues funkeggiante The Louisville Lip di Eddie Curtis (1971). La canzone Greatest Love of All, prima di diventare un successo di Whitney Houston debuttò cantata da George Benson nel film su Ali Io sono il più grande (1977). E sempre lo stesso Ali si contraddistinse per la sua versione di Stand by Me (Ben E. King).
Tra le stelle invitate a suonare per il festival che accompagnava il match in Congo (Miriam Makeba, Crusaders, B.B. King e tanti altri), dominò James Brown, un Muhammad da palco: di energia e fisicità. Brown da giovane era stato un peso leggero. Picchiato duro si era dato al baseball, ma infortunatosi malamente per sfondare non gli rimase che la voce. Bastò per creare un ponte tra il rhytm’n’blues e l’hip hop, scrivendo sudate, agonistiche e nerissime pagine funk.
UGUAGLIANZA
Sport e musica: veicoli di avanzamento sociale per gli americani di colore, melting pot dai meccanismi infernali che ora premia ora stritola. In quegli ingranaggi rimase impigliato Paul Robeson, cantate, attore teatrale e cinematografico, strenuo attivista per i diritti civili, che approdò alla notorietà come elemento della squadra di football della Rutgers University dove si laureò in legge, ma per le sue idee di sinistra venne poi perseguitato.
Kareem Abdul-Jabbar parte dal razzismo nello sport americano, con un certo orecchio da storico nell’andare a scovare i momenti fondamentali della storia lasciati nell’ombra per incuria, come fa con il caso di Jesse Owens. Campione dell’uguaglianza razziale contro la pretesa superiorità ariana alle olimpiadi di Berlino (1936), ritorna in patria con 4 ori e 7 record ma nessuna azienda gli offre un contratto di sponsorizzazione, obbligandolo ad abbandonare l’università per mantenere la famiglia, costringendolo a esibirsi come fenomeno da circo. Owens sarà vendicato trent’anni dopo, con una autentica beffa della storia: il 16 ottobre 1968, durante la cerimonia di consegna delle medaglie olimpiche a Città del Messico, Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo nella finale dei 200 metri piani, alzarono il pugno chiuso guantato di nero (stranamente a Jabbar questo episodio sfugge). La musica che risuonava in Messico era quella dell’inno nazionale The Star-Spangled Banner, che negli stessi mesi Jimi Hendrix stava decostruendo con gli esperimenti che culmineranno in Woodstock. La colonna sonora del black power (militanti, atleti e artisti) è un misto di Aretha Franklin, James Brown, Sly & the Family Stone con un Hendrix ecumenico che parla agli hippie di ogni razza e un Miles Davis in scia con un jazz-rock fiammeggiante.
«Il jazz è il fratello maggiore della rivoluzione, lo segue ovunque va» scrive Abdul-Jabbar riprendendo una frase di Davis e aggiunge: «Il modo in cui stringeva lo strumento lo trasformava in un’arma, una tromba da cecchino che, nelle sue mani esperte, poteva sparare una nota che ti trapassava il cuore e ti usciva dalla nuca prima ancora che sapessi di quale canzone si trattava». Kareem ricorda di aver incontrato Miles da ragazzino, nella palestra dove si allenava e di essere stato suo ospite a casa a guardare gli adorati filmati del pugile Johnny Bratton, campione dei pesi welter nei Cinquanta.
I pilastri formativi di Kareem stanno nel sottotitolo del libro: Harlem, basket, jazz e letteratura. Il volume si muove tra vari generi letterari: biografia personale e urbana (di Harlem), romanzo di formazione tra palestre e jazz e la cultura afroamericana nelle sue varie declinazioni. Nel libro si parla poco di altri giocatori di basket ma pagine e pagine raccontano i protagonisti della Harlem Renaissance da W.E.B. Du Bois, a Marcus Garvey, passando per Alain Locke e scrittori come James Weldon Johnson, Claude McKay, Zora Neale Hurston, Countee Cullen, Langston Hughes.
Memoir, saggio socio-politico e manuale motivazionale per giovani che crescono in contesti difficili. Kareem giganteggia anche fuori campo e tiene fede a una vecchia dichiarazione fatta anni prima a un giornalista curioso che voleva sapere quale lavoro avrebbe fatto se non fosse diventato un giocatore di pallacanestro. «L’insegnante di storia», rispose Kareem.
La musica per molti atleti è un possibile accesso alternativo all’ascensore sociale e un esempio di vita da seguire. Non a caso il primo libro di Kareem sulla sua formazione sportiva si intitola Giant Steps (1983), come il brano di John Coltrane, un musicista la cui vita equivale per gli emuli (e non solo neri) alle agiografie dei santi.
Ricostruendo la sua formazione Kareem lo racconta: «La segregazione e il razzismo avevano impedito a molti atleti neri in erba di venire allenati dai coach bianchi più popolari, il cui approccio era più formale e scientifico. I giocatori neri cominciarono così a improvvisare. Come alcuni dei musicisti jazz cui era stata negata una formazione regolare o proibito di esibirsi insieme ai bianchi, svilupparono uno stile molto personale». Dalla sensazione di chiusura in un angolo, come gesto atletico per sfuggire a un destino di oppressione nasce il gancio cielo, il colpo che ripaga Kareem di mille vessazioni. «Non sono mai più stato invisibile» afferma riecheggiando – forse involontariamente – l’omonimo romanzo di Ralph Ellison. I jazzisti che tanto ammirava un po’ invisibili lo erano, ma li muoveva il fuoco dell’arte e nel loro habitat nessuno ignorava quale apporto culturale fornissero.
Scrive Abdul-Jabbar: «A volte eravamo fuori a fare una passeggiata, e mio padre mi indicava i membri di famose orchestre, gente come Ben Webster, Jimmy Rushing o Johnny Hodges. Ci camminavano accanto, con un sacchetto della spesa tra le braccia o una sigaretta tra le labbra, come fossero persone qualunque.Sembravano supereroi che se ne andavano in giro nelle loro identità segrete».
L’esempio definitivo arriva da un musicista jazz della «vecchia scuola». Siamo all’epoca dei fatti di Little Rock quando il governatore Faubus impedì la de-segregazione razziale nelle scuole dell’Arkansas. Louis Armstrong, imbestialito, annullò la tournée che doveva svolgere per il Dipartimento di Stato in Unione Sovietica, denunciando il razzismo del suo Paese. «Quello che Louis Armstrong mi ha insegnato è semplicemente questo: non basta essere un buon trombettista o un buon giocatore di basket, devi essere un buon membro della tua comunità». A giudicare da questo libro Kareem Abdul-Jabbar ha smesso i panni del campione sul campo, ma non ha mai smesso di appartenere alla sua comunità.
FUORI I TITOLI
Oltre dieci anni prima dell’omaggio funk-jazz di Miles Davis (A Tribute to Jack Johnson, Columbia,1970) il pianista Phineas Newborn Jr. registrò Sugar Ray, affresco jazz verista nel quale il suo strumento ingaggiava uno scambio ravvicinato di colpi con il batterista Roy Haynes, (Newborn/Chambers/Haynes, We Three, Original Jazz Classics, 1958).
Jerome Charyn, racconta storie di sport, musica e mafia durante il proibizionismo nella Grande Mela in Broadway: New York, l’età del jazz e la nascita di un mito (Il saggiatore, 2006). Per il ballo c’è la testimonianza di Frankie Manning con Chyntia R. Millman, Ambasciatore del Lindy Hop (DeriveApprodi, 2014), per approfondire sulla pallacanestro c’è Basketball R-evolution di Flavio Tranquillo (Baldini & Castoldi, 2016). Per i maestri del racconto anni Venti: Damon Runyon, Bulli e pupe (Elliot, 2018) e Ring Lardner, Tagliando i capelli (Marcos y Marcos, 2006). Con Il migliore (Oscar Mondadori, 1988), Bernard Malamud ha costruito una portentosa parabola sportiva che nella trasposizione cinematografica ha il volto di Robert Redford. Sfogliare l’autobiografia di James Brown, I Feel Good (Minimum Fax, 2006) è utile come guardarlo nell’happening musicale che precede l’incontro Ali/Foreman, incluso nel docu-film di Leon Gast Quando eravamo re (Mikado, 1996). Uno dei testimoni immortalati da Gast è Norman Mailer che ha offerto l’equivalente della vicenda nel saggio-romanzo La sfida (Einaudi, 1975).