Le ristampe di libri hanno il pregio di costringere a fare i conti con il tempo che scorre e con le trasformazioni che sono nel frattempo intervenute nella realtà che quei testi volevano fissare con la parola. La ristampa mette tuttavia in moto il gioco di società per attestare l’attualità o inattualità di un saggio. Gioco che però non funziona con due libri da poco tornati nelle librerie. Il primo è Masscult e Midcult di Dwight MacDonald riproposto dalla casa editrice Piano B (pp. 141, euro 14). Il secondo è Prismi di Theodor W. Adorno, una raccolta di saggi del filosofo tedesco corredata da una introduzione di Stefano Petrucciani, utile per contestualizzare i testi rispetto il clima teorico e politico che accompagnarono la sua uscita nella Germania degli anni Cinquanta.

L’ACCOSTAMENTO dei due volumi non ha nulla di arbitrario, dato che MacDonald è stato un attento lettore della Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Max Horkheimer – un materiale imprescindibile per comprendere i meccanismi dell’industria culturale. Oltre al tributo verso l’opera di Adorno, c’è da evidenziare il fatto che entrambi i testi pongono con forza il problema della «postura» degli intellettuali rispetto una industria culturale vorace e onnivora che riduce l’attitudine critica a una merce pregiata da vendere sul mercato tanto più se manifesta radicalità oppositiva verso lo status quo. Infine, il libro di MacDonald è complementare a Prismi di Adorno, cioè inizia laddove Adorno ha terminato la sua riflessione sull’industria culturale.

Dwilight MacDonald è stato un giornalista e intellettuale statunitense che ha respirato a pieni polmoni il clima di impegno civile e politico del New Deal. Marxista di formazione, aveva preso le distanze dallo stalinismo del partito comunista statunitense, facendo gruppo con quella pattuglia di intellettuali trotskisti e di sinistra non comunista che negli anni Cinquanta furono relegati dal maccartismo nelle quinte dell’industria culturale dove hanno tuttavia continuato a esercitare un potere di indirizzo nella discussione pubblica.
MacDonald dopo aver lasciato la redazione della Partisan Review (una delle riviste storiche della sinistra statunitense) fonda politics dove pubblicherà gran parte dei suoi scritti di critica letteraria e di commento sulla situazione politica. Ed è in questo contesto che matura il saggio Masscult e Midcult, scritto tra gli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta.

La cultura di massa è, sostiene a ragione l’autore, un fenomeno ormai acquisito. Il cinema, i giornali e le case editrici pubblicano materiali e producono film destinati a un pubblico indifferenziato con l’obiettivo di intrattenerlo e di distrarlo dalla fatica del vivere. I manufatti culturali che cinema, editoria e tv sfornano sono di buona fattura produttiva, ma di scadente qualità intellettuale. Tutta l’industria culturale fa leva sulla presenza di una cultura di massa che ha la scuola e i media come incubatrici e amplificatori.
MacDonald non risparmia strali e invettive contro la cultura di massa, caratterizzata da impersonalità, assenza di standard e da una ricercata subalternità del pubblico, relegato al ruolo di spettatore passivo. L’autore, tuttavia, evidenzia il fatto che il corollario è composto dalla «folla solitaria» e dall’uomo-massa.

LA FOLLA NON È PERÒ SINONIMO di standardizzazione e passività, bensì di crescita del benessere e di democratizzazione della produzione culturale, I romanzi, la poesia, le cosiddette scienze sociali non sono i mezzi di una riflessione sofferta sulla condizione umana, bensì l’oggetto del desiderio di Hollywood, sempre alla ricerca spasmodica di idee per la produzione seriale di film.
Con l’ausilio della riflessione di Adorno sull’industria culturale, l’autore scrive che l’omogeneizzazione e la produzione di manufatti culturali scadenti – stupidi, li qualifica più volte – ha bisogno però che gli intellettuali siano trasformati in lavoratori salariati, fattore indispensabile anche alla continuità produttiva dell’industria culturale. Per estensione, la cultura di massa ha nello sviluppo dell’industria culturale lo stesso ruolo avuto dalle enclosures nella formazione del capitalismo industriale. Tutto ciò è evidente negli Stati Uniti degli anni Sessanta, dove il melting pot nato dalle diverse ondate migratorie è nel frattempo divenuto nella demonizzazione della cultura di massa un’amalgama di stupidità.

ALLA CONDANNA senza appello alla cultura di massa subentra una riflessione più pacata sulla nuova organizzazione dell’industria culturale alla luce del tendenziale esaurimento della spinta propulsiva di una visione che vede l’esistenza di un pubblico omogeneo, fondato appunto sull’uomo massa.
MacDonald deve cioè ammettere una diversificazione del consumo e una corrispondente differenziazione del pubblico. La caduta dei prezzi di produzione consente inoltre la pubblicazione di opere che l’estetica dominante ritiene espressione di una cultura alta, di qualità.
Così nascono, siamo pur sempre negli anni Sessanta del Novecento, linee editoriali che propongono titoli classici della letteratura mondiale. È l’inizio dell’era della midcult, cioè dell’ibrido nato dall’incontro tra gli stili della cultura alta con la cultura di massa.

VENGONO DUNQUE pubblicati romanzi e prodotti film che hanno spacciati per opere di qualità, espressione cioè di una autorialità che l’industria culturale aveva schiacciato sotto gli stilemi omogeneizzanti della cultura di massa.
Gli anni Sessanta sono il decennio che vede il successo di pubblico di scrittori e registi che scimmiottano i grandi autori della letteratura e della cinematografia. Ma in questo susseguirsi di simulacri di materiali di qualità non c’è innovazione stilistica, né opere che consentono di aprire gli occhi o illuminano le ombre che avvolgano la vita quotidiana nel capitalismo maturo. Il midcult, questa la nuova condanna senza appello dell’autore, esprime il mainstream dell’industria culturale, celando dietro uno stile ricercato una funzione ideologica di legittimazione del capitalismo.

DWIGHT MACDONALD non nasconde nella sua critica al midcult il suo debito verso un autore conservatore come José Ortega y Gasset, il fustigatore della società di massa in nome di un individualismo resistente al potere normativo delle istituzioni della modernità. Ma non nasconde neppure l’influenza di Theodor W. Adorno nella sua critica all’industria culturale. E qui i saggi contenuti in Prismi aiutano non poco ad analizzare la dimensione ideologica dei contenuti veicolati dall’industria culturale e sul ruolo degli intellettuali in essa.
Adorno è convinto che l’industria culturale cerchi di imbrigliare lo spirito critico della produzione culturale – il filosofo tedesco è convinto che la cultura sia sempre altera rispetto il potere costituito – e per questo segnala la necessità di una autonomia degli intellettuali dall’industria dell’intrattenimento. La produzione culturale deve cioè sottrarsi ai meccanismi di mercificazione che investono anche la letteratura, la musica, la filosofia, l’arte e cercare propri stili enunciativi antagonisti a quelli della cultura di massa. Da qui l’analisi di scrittori e «operatori culturali» che hanno posto con forza la necessità di una critica della cultura dominante. E sceglie l’Oswald Spengler de Il tramonto dell’Occidente e l’Aldous Huxley de Il mondo nuovo come gli autori che meglio di altri hanno posto il problema dell’autonomia degli intellettuali dall’industria culturale.

ADORNO È CONSAPEVOLE che entrambi sono autori «conservatori», se non reazionari, ma sostiene che pongono il problema giusto – la colonizzazione della vita sociale da parte del capitalismo – che molti autori «progressisti» rimuovono sistematicamente. Il filosofo tedesco riprende inoltre alcuni argomenti di sapore marxista. Pone cioè con forza il tema dell’alienazione e del capitalismo come totalità alienante, individuando nel superamento dei rapporti sociali di produzione, anche se li circoscrive alle dinamiche concorrenziali tra imprese e prodotti tipiche dell’attività economica industriale e non si spinge mai a volgere lo sguardo sul come vengono prodotti i manufatti culturali.
Ma se la trasformazione degli intellettuali in lavoratori salariati è sacrificato da Adorno sull’altare di un soggettivismo fuori tempo massimo – la volontà dell’autore di sfuggire al canto delle sirene dell’industria culturale -, la sua analisi aiuta a colmare le lacune della riflessione di Dwight Macdonald, cioè la sua propensione a relegare la critica all’industria culturale a una invettiva di natura etica.

Tanto Prismi che Masscult e Midcult si confrontano la centralità dell’industria culturale nella produzione del consenso e nella formazione dell’opinione pubblica. Ne svelano il potere normativo: da qui la loro utilità in una critica alla fabbrica dell’opinione pubblica nell’era della Rete, della comunicazione interattiva tra autore e consumatoreall’interno di una radicale parcellizzazione del pubblico.
I libri, la musica, il cinema sono progettati per soddisfare una domanda diversificata secondo gusti, attitudini e stili di vita. In altri termini, più che l’omologazione e la standardizzazione, l’industria culturale privilegia le differenze. E con questo panorama che occorre misurarsi. E per farlo non resta che entrare negli atelier dell’industria culturale per comprendere come i rapporti sociali di produzione non siano un orpello, ma la chiave di accesso alla critica dell’ideologia dominante.