L’abbiamo rincorsa per un po’ la mostra dedicata a Lica e Albe Steiner, ma adesso che si trova nell’ottocentesca Sinagoga di Reggio Emilia (dal dopoguerra non più luogo di culto) ne siamo ricompensati perché per molte coincidenze questo, forse, è lo spazio ideale – in senso simbolico – per raccontarla. L’edificio disegnato alla metà del XIX secolo dal neoclassico Pietro Marchelli è uno spazio che ha sofferto la guerra: distrutto, poi ricostruito. Ha visto la comunità ebraica reggiana deportata e annientata. Una violenza, quella fascista, che conobbe di persona a undici anni Albe con l’uccisione di suo zio Giacomo Matteotti, e poi, nel 1943, di suo fratello Mino nel lager di Ebensee. Stessa sorte per il padre di Lica, nel 1944, poco prima dell’adesione con Albe alla lotta partigiana in Val d’Ossola. La grande aula di via dell’Aquila nel dopoguerra è stata, però, anche la sede di una tipografia e sembra ovvio da spiegare, ma tutti quei materiali di carta, che compongono l’universo steineriano, appaiono come destinati da sempre a stare lì dentro. I più fragili, come lettere, locandine, bozzetti e prove grafiche sono orizzontali in teche, gli altri su pannelli, i manifesti in grande formato sul pulpito dove è sospeso all’interno di una nicchia, sopra un piccolo candelabro a sette braccia, un pannello con sopra la poesia di Ludovico Belgiojoso scritta a Mauthausen: «…Ma ho potuto pensare una casa / in cima a uno scoglio sul mare / proporzionata come un tempio antico».
La mostra Licalbe Steiner (fino al 16 aprile), curata dalla figlia Anna, nel passaggio da Milano (al Museo del Novecento per il 70° della Liberazione) ha solo inspiegabilmente cambiato il sottotitolo: da «grafici partigiani» al meno comprensibile «alle origini della grafica italiana». È evidente, quindi, che a Reggio più che a Milano sembrano congiungersi, anche solo per empatia, diverse storie.
Queste attraversano gli anni del conflitto bellico e si addensano dall’immediato dopoguerra ai primi anni cinquanta per proseguire fino alla scomparsa di Albe nel 1974. Raccolte le storie e letti i suoi scritti pubblicati postumi (Il mestiere di grafico, Einaudi, 1978) è lì tutto a confermare la lucida e nettissima posizione «partigiana» di Albe. Anche la presenza casuale e discreta della poesia dell’architetto dei BBPR sembra rimarcare che il lavoro dei Licalbe non è stato mai disgiunto dall’impegno militante. Non è insomma un imprevisto che Steiner si ritrovi con Belgiojoso a collaborare negli anni settanta al memoriale della deportazione di Carpi: non si trattò solo di eseguire un buon progetto di museo-monumento. Paolo Fossati inquadrò bene il mestiere di Albe in particolare nel «difficile dibattito» di quegli anni, non riducibile a una semplice contesa: «lotte estetiche – ha scritto Dorfles – tra rigurgiti novecenteschi e preoccupazioni neorealistiche». Non è stato solo questo. Occorre, quindi, guardare ai documenti esposti seguendo ciò che raccomandò Calvino: «per Albe il piacere dell’invenzione formale e il senso globale della trasformazione della società non erano mai separati». La ragione affonda in un aspetto psicologico che lo scrittore centrò con esattezza e che concerne il carattere ottimista di Steiner. Il fatto, vale a dire, che conobbe il «male assoluto» che lo portava «ad allontanare tutto il negativo al di là di quella linea perché al di qua l’ottimismo restasse l’elemento decisivo».
La mostra è allestita secondo un ordine cronologico e un «parametro tipologico»: criterio già scelto da Lica quando con Mario Cresci decisero di classificare le foto-grafie di Albe (Foto-grafia, Laterza, 1990). Il percorso si apre con gli esordi negli anni trenta fino ai lavori nel decennio della rinascita democratica, con i brevi racconti per immagini dei momenti familiari o vissuti con gli amici, i loro viaggi e soggiorni – importantissimo quello in Messico, dove i Licalbe frequentarono il Taller de Graficá Popular (1945-’48) –, proseguendo con la lunga serie dei marchi, «imballaggi» e prodotti grafici di ogni genere progettati per l’industria (Pirelli, Aurora, Pierrel, Arflex, OMS, Olivetti), la grande distribuzione (La Rinascente, Coop), l’editoria libraria (Feltrinelli, Einaudi) e giornalistica (Milano Sera), le istituzioni culturali (Triennale), le associazioni politiche, il movimento sindacale e la stampa comunista.
Questo multiforme numero di prove ed esperienze hanno come fondamento un metodo rigoroso e una disciplina altrettanto severa, che considera la tecnica ogni volta strumentale e il risultato sempre l’espressione di un processo collettivo. Ancora fidanzati, il soggetto di fotografie e disegni per Lica e Albe sono essi stessi in gesti e occasioni vissute insieme, ma già con l’obiettivo di «fissare la memoria pensando al futuro», come troviamo titolato in catalogo (Corraini). In seguito verranno gli amici con i quali la coppia condividerà sentimenti e progetti: Vittorini, che chiamerà Albe a Il Politecnico (1945); Picasso, che per i suoi ottant’anni inviterà la coppia a Vallauris; e poi Albini, de Carlo e Mucchi, Calvino, Huber e Veronesi, che Albe riprende con la sua Rolleiflex in momenti di svago. Gli scatti sono dei più vari. Si va dai ritratti in pose tradizionali (quelli di Lica saranno negli anni cinquanta utilizzate come sagome per alcune copertine di Feltrinelli), agli arredi della loro casa ripresi in stile Bauhaus, alle tende rattoppate della casa di Panarea trasferite da Polaroid in composizioni astratte (1968).
La sperimentazione fotografica giocherà sempre un ruolo fondamentale nel mestiere di Albe, che sarà però, sempre, un «non-fotografo». Seppure radicato nelle avanguardie artistiche (Man Ray, Moholy-Nagy, Rodchenko), queste non gli sono necessarie in senso tecnico e linguistico, ma, diremmo, in senso politico: «l’idea di avvicinare intimamente – come ha scritto Giovanni Anceschi – la realtà alla vita». Così, Albe non gradì la deviazione formalista delle neoavanguardie del dopoguerra. Steiner appartiene a quegli «operatori pragmatici» (Huber, Munari, Noorda) che, nel confronto con l’industria attraverso la «grafica progettata», vollero conoscere il perché e il come si trasmettono i valori estetici, etici, politici. Sarà lapidario scrivendo del rapporto tra contenuto e forma: del contenuto occorre, con un «segno speciale», farne una sintesi che deve essere «immediatamente percepibile e chiara», tutto l’opposto della «notevole quantità di segni con un bassissimo livello estetico» della relatà presente. Ogni linguaggio della comunicazione si dimostra adeguato solo se «universale» e diretto a «cambiare la vita», ed è questa la ragione della centralità che, nel suo sistema, riveste la formazione e la scuola, con le esperienze didattiche: Convitto Rinascita, Umanitaria…