Londra, prime ore del mattino di ieri. Le giacche blu della cavalleria yankee irrompono al galoppo nella suprema corte britannica, scompigliano le parrucche dei giudici e sequestrano il prigioniero.
Cinemascope a parte, è quanto è successo ieri a Julian Assange, ora a un soffio dall’estradizione negli Usa. I legali statunitensi hanno vinto l’appello per portarsi a casa lo scalpo del fondatore di Wikileaks, reo di aver mostrato al mondo le esternalità della democrazia aviotrasportata in Iraq e Afghanistan.

Due giudici super-senior, Lord Chief Justice Lord Burnett e Lord Justice Holroyde, hanno sentenziato che Assange debba essere estradato negli Stati uniti e ivi processato per spionaggio, annullando un parere precedente grazie alle assicurazioni della posse dei legali di Washington che l’imputato sarà trattato umanamente: non sarà tenuto in isolamento e nemmeno in una prigione di massima sicurezza, hanno garantito, a meno che non faccia qualcosa «per meritarselo».

L’ATTIVISTA Stella Morris, compagna di Assange, futura sua moglie (gli è stato appena concesso il permesso di sposarla) e madre dei suoi due figli ha definito la sentenza «pericolosa e fuorviante» come anche «inaffidabili» le rassicurazioni sul trattamento dell’imputato da cui i giudici si sono lasciati convincere. Lei e la squadra legale di Assange hanno già annunciato un ulteriore appello «non appena possibile». Ma i tempi sono stretti, un paio di settimane al massimo, e c’è davvero il rischio che sia finita.

Julian Assange aveva precedentemente evitato il rischio di estradizione. Questa decisione rovescia quella presa dal giudice distrettuale Vanessa Baraitser lo scorso gennaio. In quell’occasione, Baraitser aveva deliberato che l’hacker e giornalista australiano non dovesse essere estradato per seri rischi alla sua salute mentale – in particolare quello «opprimente» di suicidio – laddove fosse stato sottoposto a isolamento e duro regime detentivo negli Stati uniti. La decisione era stata presa anche in seguito alla testimonianza di Michael Kopelman, neuropsichiatra del King’s College di Londra, che aveva trovato Assange in fragili condizioni psichiche, come sarebbe stato chiunque dopo una cattività infinita fra carceri e i venti metri quadrati di Ecuador (l’ambasciata del paese latinoamericano a Londra) in cui si era rifugiato dal 2012 al 2019 per sfuggire a un’accusa di stupro in Svezia, poi ritirata. Da allora è recluso in isolamento nel carcere londinese di Belmarsh. Nel complesso è dal 7 dicembre 2010, undici anni, che è in un modo o nell’altro recluso.

Com’è noto, gli statunitensi vogliono processarlo per accuse di spionaggio risalenti al 2019 per «una delle maggiori compromissioni di informazioni segrete nella storia degli Usa», avendo Assange, con la collaborazione di Chelsea Manning, divulgato documenti top secret legati alle trionfali campagne (lanciate presumibilmente anche per la libertà di stampa) Usa a zonzo per il pianeta nell’ultimo trentennio. Qualcosa come 90.000 rapporti di guerra in Afghanistan, 400.000 in Iraq, 800 valutazioni di detenuti a Guantanamo Bay e 250.000 cablogrammi diplomatici del Dipartimento di Stato. Alcuni di questi documenti mostravano crimini di guerra, come “involontarie” stragi di civili. Per Assange l’estradizione è già di per sé una condanna. Su di lui pesano diciotto capi di imputazione. Rischia 175 anni di galera.

IN QUESTA pluridecennale zozzeria, l’aspetto “criminale” dell’accusa mossagli è ovviamente specioso. Questo è un processo politico bello e buono in cui si crea un precedente per perseguitare il giornalismo che non ci piace in mezzo a tanto assordante ciacolare sui diritti umani e giornalistici perseguitati dagli “altri”. Ed è anche uno di quei casi in cui la sudditanza diplomatica di Londra nei confronti di Washington (come nel caso di Anne Sacoolas, agente americana fuggita in patria dopo aver accidentalmente investito un giovane vicino a una base militare della Raf e finora mai estradata grazie all’immunità diplomatica) salta maggiormente agli occhi: quando la special relationship esprime una sua intrinseca natura semicoloniale nello squilibrio tra diseguali.