L’ultima creatura parlamentare per ora non è una scissione né un gruppo ma una loggia di iscritti all’orecchio, una forza forzista invisibile ma pronta ad entrare in azione in caso di necessità, ovvero rischio di caduta della legislatura. Sono, l’ha spiegato ieri il senatore Paolo Naccarato a Repubblica, «gli stabilizzatori-Orizzonte 2018», cugini dei «responsabili» che nel 2013 hanno, allo stesso fine, dato vita all’Ndc di Alfano. Ma di progenitori ne hanno avuto di ogni genere e quasi in ogni legislatura. Naccarato ha un solido know how da reggitore di governi in bilico. Era con Cossiga nelle file dell’Udr, partito creato dal picconatore nel ’98 per sorreggere il governo D’Alema. Dieci anni dopo in qualità di sottosegretario ha sorretto fino a prematura morte anche il governo Prodi. Che il senatore sia uno spiritoso cultore della materia lo si vede dal nome scelto per la sua pattuglia. Lo «stabilizzatore» è, secondo la Treccani, in una nave «ogni mezzo atto a ridurre le oscillazioni, specialmente per effetto del moto ondoso del mare» e può essere passivo, frenante oppure attivo producente forze che contrastano lo sbandamento. In un aereoè una parte fissa attaccata a fine fusoliera, alla coda insomma.

Gli «stabilizzatori» della 17esima legislatura, ove mai davvero dovessero entrare in azione, ovvero se Forza Italia dovesse sul serio provare a mettere in difficoltà il governo Renzi – ma davvero, non a proclami – non farebbero che professare che «il fine della legislatura è arrivare alla fine della legislatura», come spiega un deputato dem di lungo corso. Una professione antica che nell’ultimo parlamento è più praticata di quel che appare. Perché , spiega Naccarato, «prima viene il paese». Poi, ma il corollario è nostro, seguirà come l’intendenza il vitalizio che per effetto di una legge varata dal centrosinistra segue ormai solo avendo portato a termine una legislatura completa. «Sui costi della politica bisogna fare pensieri lunghi. Questa legge, immaginata per risparmiare, quanto ci costa? Ora le legislature non finiscono in anticipo, e noi ci teniamo Berlusconi», spiegò nel settembre 2011 il saggio Franco Marini in un seminario di giovani dem che reclamavano il taglio dei costi della politica. Cambiando il nome del premier, per ragioni non troppo dissimili, il governo Renzi oggi è a prova di onde, venti, beccheggi e sbandamenti.

Gli stabilizzatori sono indispensabili a questa legislatura nata a forza di stabilizzazioni. Quando il 26 febbraio 2013 Bersani annunciò la «non vittoria» il suo braccio destro e quello sinistro, Enrico Letta e Stefano Fassina, fecero balenare di fronte alle telecamere la possibilità di tornare al voto. Un gelo da Perito Moreno fece rimangiare la proposta a entrambi.

Poi fu la volta dei «101» e più stabilizzatori del Pd che non votarono Prodi perché sospettato di propensione allo scioglimento delle camere. Stabilizzatore per eccellenza è stato poi il presidente Napolitano. Che, eletto al secondo mandato, indicò al parlamento la strada delle intese «per far vivere un governo, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie, e cioè tra maggioranza e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale». Nacque il governo Letta con la mission delle riforme in un arco di vita dichiarato di 18 mesi, ragionevole date le condizioni di partenza. Nell’autunno 2013 la decadenza di Berlusconi provocò l’uscita del Pdl dalla maggioranza, le riforme svaporarono e la legislatura beccheggiò poi andò in stallo. Poi in picchiata da quando, a dicembre, Renzi vinse le primarie del Pd. E cominciò a bombardare il ’suo’ governo che già da sé non volava. Fino al famoso cambio di premier che – di nuovo – stabilizzò la legislatura. Su quell’episodio è tornato qualche giorno fa Renzi a Porta a Porta con tono sprezzante: «Io avevo detto a Letta ’si va avanti fino al 2018’. Poi hanno bloccato l’azione di governo perché puntavano ad arrivare al voto nel 2015», «non è stato in alcun modo un tradimento di un patto, se Letta fosse stato sereno sarebbe rimasto lui il presidente del Consiglio». Su quella vicenda, che poi è l’atto di nascita del Pd renziano, da sempre Letta mantiene un silenzio paziente (ma qualche giorno fa in Transatlantico ha lasciato scivolare un «non è detto che resterò zitto, non per tanto tempo ancora»). In pochi hanno voglia di tornare. Renzi strinse il famoso patto del Nazareno, nuovo carburante per la legislatura. «Il cambio di premier era implicito in un congresso che aveva eletto un segretario ma anche un candidato premier», spiega Fassina, all’epoca viceministro, astenuto nella direzione nel 13 febbraio 2014 che sfiduciò Letta (dove solo i civatiani ’nemici’ di Letta votarono contro). «Ed è vero che il governo stentava a produrre risultati sul piano economico, ma è vero anche che Renzi sapeva che andare avanti con Letta avrebbe l’avrebbe portato a logorare i suoi consensi. I non renziani ne presero atto». E tutti, o quasi, si trasformarono in «stabilizzatori». Democratici.