I commenti rimbalzati l’altra notte sulla Croisette dopo l’anteprima stampa non erano molto incoraggianti. I più gentili lo definivano «nullo» e quelli che non amano Olivier Assayas sembravano quasi soddisfatti nel dire che era stato fischiato. Così ieri, in fila sotto al sole, molti festivalieri assetati dai continui sequestri di bottigliette d’acqua (la sicurezza) e stremati dalle pochissime ore di sonno stavano quasi per rinunciare.

Invece Personal Shopper è un film sorprendente anche nei suoi tentennamenti, nelle parti meno riuscite, in quegli inciampi narrativi o negli eccessi di genere in cui ritroviamo l’universo poetico del regista francese, accordati magari in modo meno compatto che altrove (penso a L’Heure d’etè) ma con lo stesso pudore, delicatezza, grazia visuale e soprattutto amore profondo per il cinema.

Protagonista è ancora una volta Kristen Stewart, e a ben vedere tornano anche molti dei motivi espressi nel precedente Sils Maria in cui l’attrice duettava con Juliette Binoche: l’idea del doppio tra due donne molto diverse, anche se qui i rapporti sono inesistenti. Giovane americana a Parigi e «Personal Shopper » di una celebrities (quella da Bling Ring di Sofia Coppola), Maureen (Stewart)che ha un dono di medium, aspetta ostinata un segno dal fratello gemello morto per un attacco di cuore. Il segno però non arriva, ci sono soltanto altri spiriti incattiviti. Intanto la fidanzata del ragazzo ha trovato un altro amore – «Non volevo vivere nel lutto fa troppo male» – la sua casa viene venduta, i giorni vanno avanti uguali ma lui continua a non manifestarsi.

Il tempo di un lutto, l’assenza della perdita: a cosa siamo disposti per dare una risposta agli interrogativi del nostro dolore? Quali rischi, truffe, vite? Maureen non ha nello spiritismo la stessa fede caparbia che aveva l’amatissimo fratello – «Io lo seguivo» dice quando le chiedono della sua capacità di entrare in contatto con un al di là. Ma esiste davvero? O è solo lo spazio del nostro bisogno di crederci?

Assayas non propone risposte, le sue sono intuizioni, pensieri che proietta nella materia mobile e impalpabile delle immagini. Che cercano qualcosa di universale e nell’esperienza di ciascuno sempre nuovo, che permettono di inventare il mondo o almeno di illuminane le zone sensibili, quelle che sfuggono alle linee nette della realtà. Come i dipinti di Hilma af Kilnt, che Maureen scopre nelle sue ricerche, pioniera dell’arte astratta prima di Mondrian e Malevitch, nello spiritualismo e nella teosofia questa pittrice donna, una rarità per quegli anni, trae l’ispirazione per guardare oltre l’esperienza tangibile. Astrazione e realismo, ma più che un’opposizione una sorta di complementarietà: non è la stessa tensione del cinema?

Negli anni dell’esilio americano Victor Hugo aveva scoperto lo spiritismo e raccoglierà le conversazione con gli spiriti, la figlia Leopoldine o Dante e Galileo in «Le livre des tables», un altro degli strumenti con cui Maureen esiliata in Francia prova a affrontare quel suo vuoto insopportabile.
Certo, i mondi di Assayas non sono chiusi, non fabbricano certezze sfoggiando regie virtuose e istantanee del presente come nei film che tanto piacciono qui – penso a Sierranevada di Cristi Puiu. Al contrario la potenza della sua messinscena è fatta di discrezione e morbidezza, epifanie improvvise come le apparizioni degli spettri che compongono un romanzo dell’umano.

Maureen, la «personal shopper» più malvestita che si possa immaginare, con la sua andatura goffa, vagamente butch, che non osa provare gli abiti di lusso della sua capa – le è vietato – sa trovare sempre il dettaglio giusto:accessori, scarpe, ma su di lei quel vestito luccicante lo sente fuori posto quando lo indossa assecondando un gioco crudele.

La sua solitudine silenziosa, immersa in spettri veri o presunti – più Kurosawa Kyoshi che i Ghostbuster – racconta con raggelata precisione lo stato d’animo del presente. Un sentimento dell’al di qua che sembra avere cancellato il corpo nell’immateriale tecnologico e nelle sue attrazioni, il sesso come gesto solitario: troppa realtà che nega persino la sua l’astrazione. Assayas però non è un moralista, la sua trama del presente affiora sempre da un gesti segreto, in quel dolore universale che cola lieve negli istanti di un tempo che è quello del cinema.