Leonardo Bistolfi, “Busto di Beethoven”, Casale Monferrato (Alessandria), Museo Bistolfi

 

La questione dei rapporti fra la musica e le arti plastiche non è un soggetto nuovo: lo ammette lo stesso Paolo Bolpagni, curatore della mostra Vedere la musica L’arte dal simbolismo alle avanguardie, che raccoglie nel palazzo Roverella di Rovigo, fino al 4 luglio, le prove dei «molteplici rimandi al mondo musicale presenti nelle arti visive europee nell’epoca compresa tra il 1880 e il 1940», nonché delle parentele e delle comunanze estetiche, talora dei «paralleli sviluppi delle due sfere espressive e disciplinari», se non sempre «con sistematicità e completezza», come dichiara nei propositi, perlomeno con vivacità ed efficacia.
Nessuna singola esposizione, per quanto copiosamente documentata, potrebbe, d’altro canto, esaurire l’argomento. L’ut pictura poësis cominciò a cedere il suo primato all’ut musica pictura sul declinare del secolo decimottavo. Fontanelle si mostrava ancora irritato dal fatto che la musica strumentale non avesse un soggetto preciso. Gradiva l’opera cantata ma le sonate gli pareva non portassero a nulla, al punto che un giorno si dice prorompesse in quel suo famoso: «Sonate, que me veux-tu?». Il carattere non mimetico della musica, che tanto spiaceva allo scrittore francese, doveva invece costituire un titolo di merito presso un pittore ottocentesco come Paillot de Montabert, il quale, nei nove volumi del suo Traité complet de la peinture (1829), ammirava invece nei compositori proprio la capacità di suscitare particolari effetti attraverso il semplice accordi fra i suoni.
Pochi anni prima (1824), un artista assai più grande di lui, Delacroix, aveva annotato nel suo diario: «Cet art (la pittura, ndr), ainsi que la musique, sont au-dessus de la pensée; de là leur avantage sur la littérature, par le vague»; la mostra a palazzo Roverella, tuttavia, comincia più tardi, nel 1880, allorché l’opinione che le arti dovessero aspirare alla condizione della musica, come scrisse Walter Pater nel suo saggio su Giorgione, era oramai un fatto largamente assodato.
L’iconografia dell’epoca ne testimonia le ragioni: il musicista, come un negromante, evoca mondi incantati, accende l’immaginazione, senza la quale la pittura è cosa morta. Ne osserviamo molti esempi, passeggiando per la prima sala, dei quali basterebbe dire il titolo per capirsi: L’initiation à la musique di Ranson, L’evocazione creatrice della musica di Segantini, Musica mistica di Alfredo Ricci. Anche fra le opere di grafica (l’ottima sezione è curata da Francesco Parisi) si parla la medesima lingua: Evocation è il titolo d’una acquaforte di Max Klinger, tratta dalla serie delle Brahmsphantasie (1894), in cui si vede destarsi al suono d’alcune note di pianoforte un inclito groviglio d’eroi gesticolanti (ma il motivo non è nuovo: pensiamo all’Ossian di Gérard), più conveniente in verità a Strauss che non a Brahms, mentre in Accorde, ricavato dal medesimo ciclo, a essere evocato è invece un paesaggio marino sul cui sfondo si scorge qualcosa d’assai simile a un’isola dei morti böckliniana.
Bolpagni parla di una «ricerca d’armonie cromatiche in grado di avvolgere luoghi e figure in un’unità sinfonica», ben visibile in opere come Crepuscolo sinfonico (1908) di un pittore, Adriano Baracchini-Caputi, nel quale si sente l’ammirazione per Grubicy de Dragon. Molti di questi lavori tradiscono una vaga aspirazione dell’anima a dissolversi in qualcosa di somigliante a una remota infinità prenatale, a passare «da uno stato distinto e conoscibile» a quello che Angelo Conti definiva «uno stato informe ed arcano», ovvero, non meno nebulosamente, «dalla condizione della lotta alla quiete dell’inesistenza»: un’ambizione a cogliere l’ineffabile alla quale il dramma di Wagner avrebbe dato un ulteriore alimento.
Non era a quest’unità originaria, d’altra parte, che mirava l’ideale wagneriano di Gesamtkunstwerk? Il wagnerismo, tuttavia, come quell’altra voga del tempo che fu il giapponismo, doveva limitarsi, almeno nelle sue prime fasi, a fornire ai pittori soggetti nuovi sui quali esercitare la loro fantasia, senza che a ciò corrispondesse un effettivo ripensamento formale. Né Lionello Balestrieri né il burroso Makart andarono infatti molto al di là delle convenzioni, per aver rappresentato l’uno alcuni episodi del Parsifal, del Tannhäuser e del Tristano e Isotta, l’altro Siegmund e Sieglinde nella capanna di Hunding (1880-’83); mentre è solo in Fantin-Latour (del quale è presente un meraviglioso L’or du Rhin, 1888, vibrante di luce come un pastello) che assistiamo a un tentativo di sciogliere il linguaggio pittorico dalle consuetudini rappresentative, per dar conto, attraverso i contrasti di luce e l’opposizione delle ombre, della vitalità emozionale della scena.
La musica parla all’anima, si diceva, non, come fanno l’immagine e la parola, all’intelletto. Bisogna perciò che i pittori apprendano dai musicisti a esprimersi in termini astratti, col solo mezzo delle linee e dei colori, perché «les couleurs et les lignes – secondo quel che ne diceva Teodor de Wyzewa – ont pour les âmes une valeur émotionnelle, indépendante des objets même qu’elles représentaient».
Come l’adozione del linearismo vegetale aveva permesso agli architetti art nouveau di liberarsi dalla proliferazione ornamentale, creando i presupposti del futuro razionalismo, così l’imitazione della musica aveva messo le basi per un trattamento autonomo dei mezzi espressivi che, sebbene sia stato poi sviluppato con ben altra radicalità dalle avanguardie, si trovava già in germe nel fonosimbolismo e nel principio dell’arte «pura». Notiamo gli ultimi bagliori della stagione simbolista da poco tramontata splendere ancora nei lavori di Janus de Winter (la cui Fantasia musicale: Richard Wagner, 1916, ha qualcosa di liberty), ma non è che l’estremo commiato: in artisti della complessità di Klee (Fiori notturni, 1921) tutto ciò appare non dico assente ma già metabolizzato.
Intanto molti vecchi idoli erano caduti e alla musica emozionale di Wagner e di Beethoven (il cui mito ottocentesco è esplorato in una sezione a sé, dove si trova esposto, tra gli altri, un bel Busto di Bistolfi) era succeduto il casto contrappunto di Bach. Ci si ricorderà che Adrian Leverkühn, il musicista protagonista del Doctor Faustus di Mann, non guardava più alla musica del XIX secolo ma a Palestrina, quando non a compositori più remoti.
Le sue predilezioni sono quelle della sua epoca, in cui era quasi d’obbligo ispirarsi ai canoni e alle fughe. Amédée Ozenfant e Le Corbusier (che allora si firmava ancora col suo vero nome Charles-Édouard Jeanneret), teorici del Purismo, amavano in uno spartito la trasposizione in termini sonori di rigorosi principi compositivi sui quali dovevano basarsi anche le arti plastiche; ne vediamo alcuni esempi come Totem di Jeanneret (1919) e Nature morte di Ozenfant (1921), o ne leggiamo gli intenti, a cui le opere corrispondono talora con una certa qual meccanicità: «Una sorta di prima varietà di forme elementari, unita a una gamma parallela di colori sistematici, vanno a formare l’analogo di ciò che è un piano per la musica (novantasei note necessarie e sufficienti scelte tra l’infinità dei suoni; e che, tuttavia, sono un dizionario molto ricco per artisti diversi)». Che avrebbero detto gli antichi moralisti i quali diffidavano della musica perché capace a loro giudizio di suscitare le passioni più scomposte? Orfeo aveva lasciato il posto a Pitagora. Anche per i cubisti, il fascino di un concerto consiste nei suoi elementi costruttivi: lo si nota in un quadro come Le Chant de guerre di Gleizes (1915).
Dai molti lavori diversi esposti caviamo infine una convinzione: che, come un Don Giovanni romantico, nelle sue molte passioni musicali la pittura non amò che se stessa.