«Ci volete rendere invisibili» dice Gibron, uno dei ragazzi che abitavano nel palazzo di via Curtatone a Roma, sgomberato dalla polizia a suon di cariche e cannoni ad acqua. A occhi distratti e superficiali potrebbe sembrare vero. Donne, uomini e bambini sembrano spariti, dissolti. Ma così non è. Le loro vite, stravolte, vanno avanti. Tra gli 800 abitanti del palazzo, almeno 700 arrancano, facendo sforzi disumani per mantenere una parvenza di normalità e di dignità. Almeno 700 sono in giro per le strade della città.

Come Kidane. Lavora tutte le notti, dalle 21 alle 4 del mattino, nel bar di una stazione ferroviaria. Di giorno vorrebbe riposare. Non ha un contratto, se non va a lavoro non lo pagano. Così dorme alla stazione, cartoni per terra e via, oppure su qualche panchina, o su un marciapiede, o dove capita, vicino a qualche amico che veglia sulle sue cose, ormai poche. Un esempio fra 700.

Anche Emanuel lavora di notte, dalle 4 alle 10 del mattino. Pulisce gli uffici. Tra pochi giorni finirà i tre mesi di prova e riceverà lo stipendio. Spera in un contratto. Sono 8 notti – e 8 giorni – che dorme a intermittenza. 192 ore.

Deve resistere. «Sono stato in alcuni parchi, ci spostiamo continuamente, e in piccoli gruppi, per paura di essere cacciati anche dalle panchine. Ho riposato nelle aiuole e sulla sedia di un bar notturno, molti di noi fanno così, prendiamo un cappuccino e ci poggiamo a un tavolino per chiudere qualche minuto gli occhi, le giornate sono lunghe, siamo stanchi». I suoi datori di lavoro conoscono la situazione che sta vivendo. E quindi? «Niente».

Anche se volesse, non potrebbe accettare il posto letto in un centro di accoglienza del Comune. Ci sono regole ferree e poco intelligenti. Se devi andare a lavoro di notte, per esempio, non puoi uscire dal centro. Letto sì, lavoro no.

«Molti di noi si vergognano di dire dove stanno dormendo, non è facile ammettere di passare la notte su dei cartoni in una stazione o in un vicolo, nascosti. Viviamo in Italia da anni, lavoriamo, abbiamo le nostre abitudini e la nostra dignità. Ho perso di vista alcuni amici, ci sono persone che non riesco a sentire da giorni – afferma Simon -, avevo un album con le foto della mia famiglia. Io da bambino ad Asmara, il giorno della mia laurea, mio figlio appena nato». Simon ha perso tutto: «Anche le immagini della mia storia, mi rimangono solo quelle dello sgombero, che difficilmente riuscirò a perdere. Mi sono rimaste sulla pelle».

Lo sgombero ha trasformato cittadini comuni, lavoratori perfettamente integrati, in gente che dorme per strada, senzatetto. «Ero stato considerato invalido al 76%, dopo l’amputazione della gamba e l’impianto della protesi la mia invalidità è scesa al 46%. All’alba del secondo sgombero, un carabiniere è entrato nella mia stanza: “Mettiti la gamba con calma e poi scendi”. È tutto molto difficile», afferma con voce tutt’altro che arrendevole Habtom. Che continua: «Ho rifiutato il centro che mi ha proposto il comune di Roma, preferisco stare per strada, la soluzione era un centro notturno, in cinque in una stanza, non potevamo portare dentro nulla, il cibo ci veniva “offerto” da un catering, le entrate e le uscite regolamentate da orari rigidi».

Habtom non ci sta a passare per un approfittatore. «Non possiamo continuare a essere usati come esche da chi vuole pescare soldi. Sento dire che riceviamo 35 euro al giorno. No, quelli sono i soldi che ricevono i centri per garantire un’accoglienza decente a chi arriva in Italia. Al richiedente asilo vanno soltanto 2,5 euro al giorno. Una volta ottenuto lo status di rifugiato non hai neanche più diritto a quelli».

Di fronte alle alternative proposte dal comune di Roma, riservate solo a una piccola parte degli 800 sgomberati, «meglio la strada». Come molti altri, Habtom avrebbe diritto al Buono Casa del comune di Roma. Potrebbe affittare un appartamento, ma sono in pochi a fidarsi delle istituzioni. Men che mai del comune di Roma.

Grandi protagoniste di tutta questa storia sono le donne. Erano tante nel palazzo (il 70% degli abitanti). Sono tante rimaste per strada, ora. Altre, soprattutto quelle con figli, non avendo alternative hanno accettato l’«accoglienza» tutt’altro che calda e amorevole nei centri di accoglienza. Hanno trovato sporcizia e incuria. «Animaletti che si attaccavano alla pelle» dice amareggiata Amara. «Una madre è dovuta andare via con il suo bambini, noi siamo rimaste e abbiamo pulito tutto. Ai nostri figli viene dato solo il latte, e noi non possiamo cucinare nulla, si mangia quello che ci danno, negli orari che ci vengono imposti. Le nostre abitudini, anche le più elementari, vengono cancellate». I padri restano fuori. Vegliano dalla strada sui figli e sulle mogli. Famiglie spaccate. Rapporti di amicizia frantumati. Legami sfilacciati. La «disintegrazione dell’integrazione» faticosamente creata nel corso degli anni.

Abeba ha dormito cinque giorni nelle aiuole di piazza Indipendenza, a Roma. Durante lo sgombero del 24 agosto, è stata violentemente schiaffeggiata dal getto degli idranti. Nelle notti seguenti ha dormito nell’ufficio nel quale lavora, per tre giorni non è riuscita a mangiare. «Vivo da fuggitiva, ho paura delle persone, ho perso la fiducia nell’Italia, un paese che pensavo potesse diventare la mia casa. Finalmente un posto dove stare. Sono fuggita dalla dittatura e ho trovato la guerriglia».

Centinaia di persone sparse per Roma, nessuna alternativa concreta, nessuna prospettiva futura. Si muovono, riposano, mangiano e si incontrano nelle strade della città. La maggior parte si sveglia per terra e va a dormire per terra.