Il tempo è una brutta bestia. Non si sa nulla di lui, da lui non s’impara niente. Ed è tutto una contraddizione: se non lo usi lo perdi ed è guadagnato se lo usi. E se capita che col tempo si impari qualcosa, a volte non si ha poi il tempo per fare quel che il tempo ha insegnato. E allora, all’inizio dell’estate, quando e se si ha la fortuna che il mondo si allenti un po’, non c’è niente di meglio che concedersi una riflessione sul tempo. Anche per coloro che si dedicano a leggere qualche libro in più, solo per svago, potrebbero far bene dei racconti che si prendano un po’ gioco di quella brutta bestia. Alessandra Urbani ha chiamato una non piccola schiera di scrittori a dedicare parte del loro tempo lavorativo a rappresentare il tempo. Il risultato ora sta in un libro che si intitola Chi ha tempo. Storie di giorni che corrono (Marcos y Marcos, pp.192, euro 13), che ad acquistarlo si può avere in più il piacere che una parte del prezzo di copertina sia trasferito ad Emergency.

Vanno dette le cose prima dei nomi. Con l’eccezione di quelli di Dacia Maraini, che da maestra del genere firma una piccola apologia del romanzo come regno del tempo, e della coppia Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, che da linguisti aiutano a riportare alla mente i vari significati e usi della parola. E la cosa da dire è che a nessuno di questi scrittori il tempo piace davvero, se non forse a Marco Lodoli che in due pagine trasforma la vita in una puerile caccia al tesoro, in cui il premio finale sembra essere la morte.

Tutti scrittori, si intende al maschile, tranne le due autrici già nominate e la curatrice, e non si sa se abbia un significato, se sia una scelta o il caso. E se non abbia invece la strana influenza di presentare un’idea di tempo non troppo dissimile, anche se gli stili e i modi di raccontare sono vari. Il grande dilemma che, forse involontariamente, l’insieme dei racconti pone al lettore insicuro del proprio tempo è se il tempo vero sia quello in cui si fanno cose, inconsapevolmente, o sia invece quello in cui si è consapevoli di sé nel fare o non fare le cose. Basta scordarsi del tempo per vivere completamente persuasi del proprio tempo? Bisognerebbe chiederlo a Winny Pooh, che domandando a Piggle che giorno sia, all’evasiva risposta «È oggi», chiosa: «Il mio giorno preferito!».

La forza della coscienza di astrarsi dal presente, macchiato dal luogo e dal contesto è raccontato in più situazioni. Quella figurata da Lorenzo Pavolini è un piccolo tentativo di evasione dal tempo nella luce e nelle acque, quasi un tenero momento di annichilamente del sé. Fantastica e paurosa, di grande suggestione emotiva è invece quella di Marco Baliani, il cui personaggio viene risucchiato in un vortice temporale fatto di antichi ricordi emozionali e sensoriali: portato in una radura nella pineta dove siede immobile una misteriosa donna africana, prigioniera di una trance che la isola completamente dal mondo circostante, viene anch’egli fatalmente catturato dalla dimensione parallela del ricordo.

Più intima è la situazione di Ivan Cotroneo, che immagina una donna che il giorno del compleanno passa in rassegna le vite sue che non furono. Tommaso Pincio ancora sorprende con un’invenzione assurda e velatamente masochista: una relazione amorosa a tempo, con pattuita scadenza che inevitabilmente uno dei due amanti, per potercela raccontare, trasgredisce rovinandosi l’avventura in una vana attesa. Paolo Di Paolo e Andrea Bajani, quest’ultimo in versi, si preoccupano invece di farci notare che non si è padroni del proprio tempo, e lo fanno con un po’ di sadismo, magari raffinato e scherzoso.

Infine, com’è ovvio, se si chiede a uno scrittore di raccontare il tempo, questi non potrà fare a meno di figurare una propria idea di scrittura (una volta si chiamava poetica), perché parte della materia della scrittura è il tempo. Una riflessione che fa pure il maggiolino che si crede un’effimera, raccontato da Fulvio Ervas, quando si rende conto che l’uso del tempo dipende dalla propria identità: mutatis mutandis, sono le stesse parole che Ulisse rivolge ai suoi uomini poco prima del naufragio, benché la caduta fuori dal tempo (la morte) venga invertita in una caduta nel tempo (la nascita).

Dov’è finita l’idea petrarchesca della letteratura come riparazione del tempo reo, cioè come cura della propria immagine? La questione riemerge nel dotto groviglio di versi altrui messo insieme da Micheli Mari: di riga in riga, le voci di tanti poeti sollevano una memoria che confonde il lettore e produce una percezione stralunata del tempo. Il racconto di Tiziano Scarpa, infine, con un suo personaggio strano che scrive in diretta tutto quel che accade, sovrappone immagini ancestrali di racconti borgesiani, per riconfermare che ogni azione umana è riduzione e sintesi del tempo. E dato che questo vale anche per la lettura, sarà bene sapere che è un libro che si legge in fretta, che però non mancherà, nella sua varietà, di rallentare il tempo.