Roberto Longhi, fot. Villani, Bologna

 

Aprendo uno dei suoi saggi di più tracotante intelligenza (Longhi scrittore del 1980 e però ne varietur dopo lunghe peripezie variantistiche solo nella raccolta Pianura proibita, Adelphi 2002, dove ha il posto d’onore) Cesare Garboli si chiedeva per l’appunto se, non fossero mai esistiti dei quadri, Roberto Longhi avrebbe in vita sua mai scritto un rigo. Interrogativa talmente retorica e anzi tautologica che potrebbe, rovesciandosi, revocare immediatamente in dubbio l’esistenza di più di uno scrittore italiano del secondo Novecento non fossero mai esistite, che parlassero di quadri o meno, le scritture di Longhi medesimo. Ne è sicura riprova Con gli occhi di Artemisia Roberto Longhi e la cultura italiana (Il Mulino, «Saggi», pp. 188, euro 17.00) a firma di uno dei maggiori italianisti della generazione intermedia, Marco Antonio Bazzocchi, che qui riordina e raccorda dall’interno sei partiture saggistiche unitamente a uno scritto introduttivo che focalizza la scrittura longhiana quale forma inventiva e nel frattempo re-inventiva dell’opera d’arte.
Qui non è più in questione la grande caratura linguistica e stilistica di un autore studiato oramai come tale e riconosciuto ai massimi livelli (da Emilio Cecchi a Gianfranco Contini, da Pier Vincenzo Mengaldo a Garboli stesso), cioè l’enfant prodige che passa indenne, sempre intatto e sempre rinnovato, dagli esordi espressionisti nei paraggi della «Voce» a talune intemperanze futuriste, senza asperità teppistiche perché il giovane Longhi sta dalla parte di Boccioni e non di Marinetti, sino alla redazione apicale e molto più tornita, cangiante, di quel Piero della Francesca (1927) che il senso comune dei lettori ritiene l’accesso alla piena maturità di un autore nella cui genealogia rientrano espressamente Fromentin e Baudelaire, Berenson e Benedetto Croce ma si dovrebbe aggiungere, quasi mai rammentato, il d’Annunzio delle partiture coeve e più preziose, prose d’arte al calor bianco, da Le faville del maglio, raccolte in volume fra il ’24 e il ’28, al Libro segreto messo insieme nel ’35: perché non soltanto ai poeti toccò allora, per esistere, di dover «attraversare» d’Annunzio, come disse una volta Montale, ma anche ai prosatori, e non esclusi i saggisti del tipo artifex additus artifici come Longhi e i rari fuoriclasse che potrebbero accostarglisi, quali Mario Praz e Giorgio Pasquali.
Per parte sua Bazzocchi muove dal nesso gnoseologico di luce/forma/colore (da cui Longhi deduce quelli che chiama i suoi logogrifi, non delle semplici ecfrasi ma trame scritte per rendere evidente, percettibile, quel che rimane implicito in un’opera d’arte) per calcolare quanto ne rifrange sugli autori più prossimi al maestro, in termini di stile e topoi, da Pier Paolo Pasolini a Giorgio Bassani, da Giovanni Testori ad Anna Banti che in quanto Lucia Lopresti fu sua allieva a inizio secolo al Liceo «Tasso» di Roma (lo documenta infine il suo bellissimo scrit autobiografico Un grido lacerante, del 1981), e ne divenne poi la moglie in un ménage molto lungo e tutt’altro che pacifico.
Giusto nel capitolo dedicato alla stesura, postuma a sé stessa, di Artemisia (perché il manoscritto, scomparso sotto i bombardamenti nel ’44, viene ripreso a memoria nell’immediato dopoguerra), Bazzocchi coglie la totalità del modello e però in assenza, perché in Artemisia non c’è il referto dei quadri ma la traccia biografica che i quadri medesimi hanno lasciato al passaggio di lei e così, allo stesso modo, di Longhi c’è senz’altro l’apriori (dunque l’attenzione alla luce come dato germinale del colore e come scansione o campo della inquadratura) ma scompare dalla pagina ogni mimetismo o richiamo puntuale allo stile, quasi che l’annientamento del romanzo primitivo avesse interrotto una obbedienza scolastica e paradossalmente propiziato nella Banti la piena acquisizione di una vera, per quanto riconoscente, autonomia.
Il caso di Pasolini è di segno opposto ma non meno complesso nella sua dinamica e Bazzocchi ne tratta in due saggi distinti. L’uno è dedicato alle «sopravvivenze» longhiane, e del Piero della Francesca in particolare, nei film La ricotta e Vangelo secondo Matteo come ovviamente nel poemetto La ricchezza ispirato al ciclo delle Storie della Vera Croce in San Francesco ad Arezzo (e qui forse sarebbe stato opportuno anche il richiamo a uno dei poemetti di Dopo Campoformio, ’62-’65, libro inaugurale di Roberto Roversi che con Il sogno di Costantino rende omaggio all’amico e al loro comune maestro); l’altro saggio tratta invece di un passaggio cruciale, primi anni sessanta, che al film di montaggio La rabbia lega il palinsesto terminale La Divina Mimesis (’75), magma di pagine abbozzate o solo progettate, di stenogrammi poetici e sequenze d’autobiografia fotografica dove Pasolini fa incontrare Longhi e Auerbach, l’insorgere di una luce che viene dal passato (la «forza del Passato» dice un suo verso capitale) e però «fulmina» lo stato di cose presenti, vale a dire che conferisce loro un senso «figurale» negli identici termini che Auerbach riceve da Dante: al riguardo scrive Bazzocchi come sia preferibile «vedere il concetto di figura al centro di molte operazioni pasoliniane, anziché ipotizzare in modo libero un ricorso al concetto di allegoria benjaminiano, che di sicuro si può intravedere solo a partire dagli anni Settanta».
Di impianto lessicografico e stilcritico la partitura su Giovanni Testori, si direbbe scrittore longhiano per eccesso laddove ogni empito di luminosità linguistica si abbuia e pregiati materiali si corrompono intridendosi dei liquami più immondi. Viceversa relativo al punto di vista è il saggio, davvero magistrale oltre che di taglio innovativo, Bassani: aura, sguardo e immagine. Ne va del classico problema del realismo ma ne va, innanzitutto, del vetusto stereotipo che stringe lo scrittore ferrarese alla letteratura di memoria. E invece proprio la lezione del maestro scampa Bassani dai rischi di una ingenua scopofilia proponendogli esempi di racconti non lineari, ovvero stranianti, presi dall’alveo dei postimpressionisti: ad esempio la postura rigidissima, glaciale, dei villeggianti dell’amatissimo Georges Seurat corrisponde sulla pagina al necessario ostacolo delle parentesi (in Bassani sono usate a oltranza) che permettono una stasi riflessiva, una diversione, uno spiazzamento proprio nei momenti in cui il flusso narrativo sembrerebbe andare in folle e il lettore potersene appagare: «Bassani – scrive Bazzocchi – non rappresenta mai direttamente i personaggi e i fatti. Li deve sempre cogliere di sbieco già filtrati da un’altra mente collettiva che a sua volta viene supportata dalla voce di un narratore. Ogni personaggio è scomposto attraverso punti di vista esterni o interni che non lo rendono mai nella sua completezza. Noi non sappiamo mai fino in fondo qual è la realtà di questi personaggi e non sappiamo di rimando neanche qual è quella del narratore. Non c’è mai una figura definitiva, l’unica definizione possibile è stilistica».
Ora, il motto più famoso di Cesare Garboli era leggere è vedere, scrivere è essere ciechi ma per Roberto Longhi valeva, e in ogni senso, anche la reciproca: tant’è che quel saggio di così spericolato acume, preparandolo per il convegno nel decennale della morte (1980), Garboli non l’aveva affatto intitolato Longhi scrittore ma, con un candore molto prossimo al lapsus, più semplicemente Longhi lettore.