«Ma che strana visione ho avuta in sogno. Ho fatto un tale sogno che non c’è barba di cervello umano che possa raccontar che sogno era. Un uomo, a raccontare un sogno simile, non può essere altro che un somaro. Era come s’io fossi diventato… non c’è uomo che possa dir che cosa… Mi pareva che fossi… mi pareva che avessi… come faccio a dir che cosa?… C’è da passar da grande balordaccio a raccontar che cosa mi pareva. Mai occhio umano ha udito, né orecchio umano ha visto, né mano mai tastato, né lingua concepito, né cuore raccontato che diavolo di sogno è stato il mio».

Sulla mia scrivania c’è un’edizione «tascabile» di Zettels Traum, questo terribile banco di ghiaccio che si muove nel Novecento, e la citazione da Shakespeare apre per l’appunto l’opera maggiore di Arno Schmidt. Si tratta, in Sogno di una notte di mezz’estate, del monologo di Bottone il tessitore (nell’originale «Bottom», mentre per Wieland e poi A.W. Schlegel sarà «Zettel» – che in tedesco vale «ordito», e in prima istanza «biglietto di carta», «nota», «cartellino»). Dopo una notte di complicate metamorfosi Bottone si risveglia dall’incantesimo lanciato da Puck e scopre di aver vissuto una strana realtà simile al sogno, quindi continua: «Dirò a Piero Cotogna ch’ha da scriverci sopra una ballata e intitolarla: “Il sogno di Bottone”; perché davvero è un sogno senza fondo».

Come la commedia gioca con l’identità di Bottom/bottom, cioè «fondo», così Schmidt identicamente gioca con la coppia Zettel/scheda, tallone di uno schedario, cartoncino, ovvero una fra le 120.000 schede che, collegate e ritessute insieme, forma il grande corpo del libro: ancora una volta Zettels Traum, «Il sogno di Zettel».

Dal 1958 all’anno della sua morte, avvenuta nel 1979, Schmidt vive a Bargfeld in compagnia della moglie Alice, in una piccola casa di legno sulla Landa di Luneburgo. La ricerca di una solitudine necessaria ai suoi progetti lo porta nel luogo geometrico più remoto dalla società. Tutt’intorno alla loro abitazione, grazie a Dio, c’è il niente per chilometri.

Il paesaggio è favorevole all’impresa, piatto e lineare come piace a lui, che detesta i gongorismi della crosta terrestre, buono per passeggiare e osservare la Luna. Avvisa gli amici che si trasferisce a 10° 20’ 53’’ di longitudine est e 52º 42’ 20’’ di latitudine nord.

Quando nel 1970 licenzia Zettels Traum, dopo sei anni di furibondo lavoro, Schmidt è da tempo una figura leggendaria: l’anacoreta, il solipsista della brughiera, l’irregolare delle lettere tedesche. Nel 1949 aveva pubblicato il Leviatano, dove si descrive il viaggio di un gruppo di sbandati nella Germania ancora nazista.

Al finire della guerra essi procedono attraverso la Slesia su una locomotiva che monta un carro speciale, uno «spaccatraverse», un carro dotato di un arpione in grado di sradicare, divorare si potrebbe anche dire, la strada ferrata, potente metafora del nulla incontro al quale è diretta la Germania – mentre a bordo gli occhi della Hitlerjugend «lampeggiano come finestre di un manicomio in fiamme».

C’è già tutta l’estetica di Schmidt in questo breve arco narrativo: l’oltranza stilistica basata su un’idea della percezione e della memoria – musiva e porosa – che nega un continuum all’esperienza e si traduce in un ammasso d’immagini spezzate, schegge acuminate di pensiero e frammenti di poesia della natura. E poi l’andamento jazzistico della prosa, con punte sempre crescenti verso l’oralità, che stride felicemente con il suo illuminismo e il culto delle scienze esatte, la critica alla religione, l’enciclopedismo.

Un’ironia solforica, leva ideale a smascherare ogni tirannia, circola ovunque e anche in un racconto successivo, Alessandro o Della verità, che con i suoi presagi apocalittici mette in relazione la fantascienza con la narrativa storica, in una «rivolta dell’intelligenza» contro il potere costituito (qui Alessandro il Macedone).

Negli anni successivi sono arrivati i romanzi della trilogia Nobodaddy’s Kinder (chiusa nel 1953), Il cuore di pietra (’56) e Kaff auch Mare Crisium (’60), a cui vanno aggiunti almeno Der Triton mit dem Sonnenschirm, volume che raccoglie pezzi radiofonici e saggi sulla letteratura, dove fra l’altro Schmidt mette su carta le sue «antidistorsioni» joyciane, e infine le miniature narrative della Inselstraße (piccoli racconti perfetti che Schmidt non amava particolarmente, o fingeva di non amare, alcuni di essi scritti per necessità economica. Tommaso Landolfi avrebbe detto che «il bisognino fa trottare la vecchia»).

Quasi tutto in Italia resta inesplorato e attende ancora i suoi lettori. Chi voglia mettersi in viaggio può raggiungere il continente schmidtiano passando dalle versioni francesi di Riehl o per quella inglese di Wood (che ha tradotto l’intera opera).

Arno Schmidt a Bargfeld
Arno Schmidt a Bargfeld

 

Uscito poverissimo dalla guerra, Schmidt ha preso nota e scritto su qualunque genere di carta, persino sui modelli per telegrammi, e ha conservato per tutta la vita l’abitudine di costruire schedari in legno e cartone, oppure adattando a questo scopo delle scatole da sigaro.

La sua non era solo un’esigenza d’ordine ma anche uno stigma compositivo, un principio poetico che ha creato per sé il fondo dove riversare migliaia e migliaia di citazioni, locuzioni, appunti, abbozzi e schemi, sempre presenti sotto la superficie dei suoi romanzi, ed estesamente per Zettels Traum, come uno strato di braille che corre sotto la trama visibile del testo.

Ma che cos’è quest’opera ritenuta quasi da tutti uno dei vertici dell’inaccessibilità? Oppure, diversamente, come ha ossservato il suo autore: «cos’è che non c’è dentro Zettel’s Traum»?

Nel romanzo, non si può chiamarlo altrimenti, si racconta la storia dell’infatuazione dello scrittore Daniel Pagenstecher – una controfigura di Schmidt – per Franziska, figlia sedicenne della coppia di traduttori Paul e Wilma Jakobi, andati da lui per parlare di E.A. Poe.

La narrazione comincia alle quattro di mattino nel giorno della «mezza estate» e si conclude venticinque ore dopo, sviluppandosi come un saggio sulla traduzione di Poe (che Schmidt aveva realmente intrapreso insieme a Hans Wollschläger) e sul senso della scrittura.

La riflessione di Schmidt articola una teoria letteraria basata sulla psicoanalisi freudiana, moltiplicando il ritorno del rimosso. Sin dalla prima pagina il grande flusso del pensiero e dell’oralità erode le sponde alla grafia fissata dalla grammatica, tutto è contraffatto o subisce interferenze. La pagina è un palinsensto raschiato e riscritto dalla danza caotica del linguaggio, dall’Altro, dall’incoscio, in qualunque modo si chiami. Schmidt lo chiama Etimo. E tutto avendo una causa, diretta o implicita, niente la ha: l’origine è «caosa».

Tre colonne si intrecciano e rispondono ai contrappunti dell’inconscio, dei pensieri che vanno e vengono, insomma dell’involontaria camera di registrazione che è la mente umana. Tre colonne o tre fili della narrazione che per Schmidt sono strettamente imparentate, «anzi sono fratelli e sorelle».

Nella colonna di sinistra, zettel 8, leggiamo «in an instant, a treasure of incalculable value lay gleaming before us», che è un luogo di Poe. Tuttavia «scorie abundant» (zettel 6, sempre colonna sx) e un segno che l’occhio aveva letto, più precisamente corretto subito come «incalculable», ha in verità una lettera ribattuta, la «v», che la fa divenire «incalvulable».

Le note a margine si dispongono come calligrammmi, pensierosi stemmi, le cancellature seguono alle cancellature, le frecce ai disegni. Il segno e i suoi miti precipitano nel riquadro bianco.

Zettels Traum è stato stampato dall’editore così come tirato fuori dalla macchina per scrivere, in un facsimile del dattiloscritto.

Ciascuna delle sue 1334 pagine in formato atlante contiene tra 6000 e 7500 caratteri in stile courier (cosa che lo rende più vasto della Recherche).

Ma che libro è veramente questo, che preme da ogni lato per non essere un libro e vuole abbracciare tutta l’esperienza pensabile, se non uno spettacolare, immensurabile, ridente naufragio, ovvero un sogno?