Le elezioni americane potrebbero non concludersi il 4 novembre. È anzi virtualmente assicurato che l’election day non sarà invece che l’inizio della vera partita in cui il paese si gioca il futuro e la democrazia.

In queste elezioni nel mezzo di un picco pandemico quasi la metà la metà degli elettori potrebbero votare in anticipo o per corrispondenza. Sin dall’inizio il presidente non ha cessato di minare il voto a distanza (che dovrebbe favorire i democratici) come «palesemente fraudolento». Trump ha designato direttore delle poste Louis DeJoy col proposito espresso rallentare il servizio da cui dipende la tempestiva consegna delle schede.

[do action=”citazione”]Allo stesso tempo, amministratori filo trumpisti hanno fatto di tutto per intralciare l’affluenza e sopprimere il voto d’opposizione. Dal 2016 sono stati chiusi 21 mila seggi, un taglio del 20% rispetto alle ultime elezioni, che spiega le lunghe code viste in molte città.[/do]

La soppressione e l’intralcio al voto degli elettori «sfavorevoli» è una storica strategia repubblicana ma Trump è andato ben oltre. Il presidente ha ripetutamente rifiutato di confermare che accetterà il verdetto delle urne, limitandosi a un sibillino «vedremo…». Nei suoi comizi intanto ha esplicitamente dichiarato che il risultato lo accetterà «solo se vinco io». È l’affermazione di chi sa di avere buone probabilità di perdere anche se il risultato davvero più probabile è che il risultato non ci sia, o che comunque non ci sia in modo definitivo la notte delle elezioni. Il pronostico è virtualmente assicurato proprio per l’incognita dei voti per posta e il dedalo di regolamenti che varia da stato a stato.

20 stati ad esempio – compresi alcuni in cui è plausibile il testa a testa, come Texas, Nevada, North Carolina, Wisconsin e Pennsylvania – prevedono che i voti anticipati vengano conteggiati solo dopo il 3 novembre. In alcune località il voto deve essere certificato entro un paio di giorni mentre altrove la conta può procedere molto oltre (in California ad esempio per 17 giorni). Questo potrebbe dare adito al cosiddetto red mirage – una apparente vittoria provvisoria per Trump forte dei sostenitori che votano in persona che verrebbe ribaltata dallo spoglio delle schede spedite per posta. Un modello della Hawkfish data è giunto a ipotizzare un iniziale vantaggio di Trump nel collegio elettorale di 408-130 grandi elettori che si trasformerebbe in un vantaggio di Biden per 334-204 a spoglio ultimato.

È quasi certo comunque che per aver un risultato ufficiale occorrerà attendere molti giorni oltre il 4 novembre, possibilmente settimane, soprattutto se come è altrettanto probabile, vi saranno una manciata di stati con margini molto stretti. Le elezioni potrebbero dunque protrarsi nell’incertezza di un “interregno” di 79 giorni che separano il 3 novembre dal 20 gennaio, data in cui il presidente viene insediato.
In questi due mesi e mezzo la costituzione prevede alcune scadenze procedurali: il 14 dicembre votano i grandi elettori, il 3 gennaio si insedia il nuovo senato, il 6 gennaio una seduta plenaria del congresso ratifica il risultato elettorale. Sempre che ce ne sia uno. In realtà l’interregno apre un ampio narine alle manovre politiche di entrambe le parti – e alla malafede annunciata da Trump.

 

Ap

 

In caso di red mirage Trump quasi certamente tornerebbe a denunciare i brogli chiedendo lo stop allo spoglio delle schede – la strategia abbondantemente annunciata durante la campagna – spalancando la crisi costituzionale. Difficile credere che gli avvocati Gop non abbiano già pronti i faldoni da presentare ai tribunali federali per influire sullo spoglio. L’ovvio precedente è quello del 2000 quando l’esito delle elezioni rimase per settimane appeso a 500 e rotti voti che avrebbero determinato la vittoria in Florida. Il risultato allora fu determinato dalla Corte suprema che decretò la fine dei riconteggi che avrebbero ancora potuto favorire Al Gore (che aveva ricevuto mezzo milione di voti in più nel voto popolare).

Una sentenza della Corte suprema potrebbe essere il plausibile obbiettivo anche di Trump che proprio questa settimana ha preventivamente blindato il massimo tribunale con la nomina della ultraconservatrice Amy Coney Barrett, ed elogiato l’opinione di un altro togato fedele, Brett Kavanaugh che ha sostenuto che i voti non contati entro il 3 novembre stesso dovrebbero semplicemente essere scartati.

Lo scenario è talmente plausibile che la scorsa estate è stato costituito un gruppo di studio denominato Transition Integrity Project composto da ex funzionari di entrambi i partiti come l’ex segretario repubblicano Michael Steele, l’ex capo di gabinetto di Bill Clinton John Podesta, l’ex segretaria del partito democratico Donna Brazile e molti accademici e giornalisti. Nella loro relazione si legge: «La nostra valutazione è che nel tentativo di mantenere il potere, il presidente Trump tenterà di confutare il risultato con mezzi sia legali che extralegali. Il suo rifiuto di assicurare l’accettazione l’esito delle urne, la sottoscrizione delle sue infondate accuse di brogli da parte del ministro di Giustizia e l’invio di truppe federali per sedare proteste di sinistra lasciano supporre le misure estreme che il presidente intraprenderà per rimanere in carica…».

La commissione ha anche fatto alcune simulazioni in dettaglio. In una di queste l’esito rimane incerto per settimane. In tre swing states il risultato è conteso e complicato da alcune schede rinvenute distrutte in uno di questi. Nessuno dei due candidati ammette la sconfitta. Un secondo scenario ha previsto la vittoria “divisa”: Biden con la maggioranza popolare e Trump con quella nel collegio elettorale. Nella simulazione Biden però non ammette la sconfitta e intraprende una agguerrita strategia politica in cui fa leva su governatori democratici di sue stati in cui Trump ha vinto a non certificare i grandi elettori e infine convince il Congresso a dichiararlo vincitore. (Anche i parlamenti dei singoli stati potrebbero avere voce in capitolo se la situazione fosse abbastanza caotica). Un altro scenario ancora ha ipotizzato la vittoria di misura (meno del 1%) di Biden sia nel voto popolare che nel collegio elettorale. Trump si rifiuta di “concedere” e mette in atto la strategia legale. Saranno i servizi segreti alla fine a rimuoverlo dalla Casa bianca.

[do action=”citazione”]In realtà non è chiaro cosa accadrebbe in caso di semplice rifiuto di lasciare lo studio ovale prospettiva impensabile ma improvvisamente plausibile in era Trump, se il presidente trattasse le regole elettorali con lo sprezzo che ha mostrato in generale per le norme politiche.[/do]

E c’è da dire che altre speculazioni prevedono scenari più drammatici ancora. L’incertezza dell’interregno si prospetterebbe infatti sullo sfondo di una nazione profondamente spaccata e animi surriscaldati dalla incessante retorica sui brogli e la “frode”, amplificata sui canali Qanon e affini.

Entrerebbe quindi in gioco la pericolosa e infiammatoria profezia auto avverante della sconfitta fraudolenta diffusa nello zoccolo duro trumpista, quella che negli ultimi mesi ha spedito miliziani armati ad assediare parlamenti e camere di consiglio (e a progettare attentati terroristici). E quella che include fazioni estremiste come i proud boys o i bogaloo che invocano apertamente la guerra civile. Negli “stati rossi” dove regnano paranoia e mentalità dell’assedio, esacerbate negli ultimi quattro anni, non è facile immaginare una conclusione serena alla luce di un risultato “sbagliato”.

La dissonanza cognitiva che provocherebbe presumibilmente qualunque esito salvo la riconferma del loro paladino, potrebbe aprire scenari inquietanti e violenti. Un possibile epilogo preparato con cura da Donald Trump e dai suoi sgherri sarebbe anche la conclusione logica della sua traiettoria di autocrazia minoritaria. È la ragione per cui è assiomatico fra i democratici che per sperare di rimuoverlo non basti una vittoria, ma sia essenziale un plebiscito che non lasci possibile dubbio sul rifiuto di Trump e del trumpismo.