Scattare una foto può essere, e nella maggior parte dei casi è, un’operazione automatica. «Voi premete il bottone, al resto pensiamo noi», recitava una famosa pubblicità della Kodak, e questo è tanto più vero nell’era delle macchine fotografiche automatizzate; ma la fotografia può essere anche un problema filosofico, in un duplice senso: da un lato, vi riflettono sopra i fotografi, tentando di cogliere in qualche modo l’essenza dell’arte che esercitano; dall’altro, ne prendono spunto i filosofi per approfondire, attraverso le tecniche fotografiche, la loro conoscenza del mondo: o meglio, per misurare la profondità dei suoi abissali enigmi.

È quanto fa il volume Scatti del pensiero. La fotografia come problema filosofico, edito da Mimesis, che presenta contributi di vari studiosi italiani e stranieri, raccolti da Marcello Walter Bruno, Giuseppe Cosenza e Caterina Martino. Il libro è suddiviso in quattro parti: rapporti tra fotografi e filosofi, tra filosofi e fotografi, semiotica della fotografia e «altri scatti».

Sulla semiotica della fotografia, sul suo noema (l’essere-stato-lì del soggetto fotografato), sulle nozioni di studium (le informazioni che la foto fornisce) e di punctum (il particolare che ci colpisce emotivamente, senza che si possa capire perché), aveva già scritto Roland Barthes, come si sa, nel saggio fondamentale La camera chiara (1980), ma qui si prova appunto a «farne a meno», privilegiando approcci di genere diverso. Di che genere, precisamente?

Scrivono i curatori: «In Scatti del pensiero la duplice questione viene affrontata sondando se e in che modo la pratica/arte fotografica – compresa l’evoluzione delle tecniche e delle apparecchiature – è penetrata nella riflessione filosofica, semiotico-linguistica ed estetica e in che modo il pensiero occidentale è in rapporto con l’opera e il pensiero di alcuni importanti fotografi contemporanei.»
Il primo contributo, quello che apre il volume dopo l’introduzione dei curatori, non a caso è di Joan Fontcuberta, il grande fotografo spagnolo. Il suo saggio ha un titolo strano, Dronizzare gli uccelli e uccellizzare i droni. Racconta una storia immaginaria, tratta dalla tradizione favolistica. Una strega fu invitata in un castello regale, per il battesimo d’una principessa appena nata, ma si offese perché non la fecero sedere su una delle sedie d’oro riservate alle fate e lanciò una maledizione: al compimento del quindicesimo anno, la bambina si sarebbe punta con un arcolaio e sarebbe caduta in un sonno profondo assieme a tutta la Corte. Malgrado le precauzioni, la cosa si verificò. Il castello stesso, ricoperto d’edera, scomparve alla vista. Dopo qualche tempo, un Principe ebbe sentore della storia e decise di indagare. Mandò dei piccioni viaggiatori a sorvolare il luogo presunto del Castello, dopo aver legato ai loro corpi una leggera macchina fotografica di sua invenzione, programmata per scattare foto a intervalli prefissati. Così scoprì il Castello, la Corte e la principessa addormentata. Com’è noto, la svegliò con un bacio.

L’uso dei piccioni muniti di fotocamera per usi militari e spionistici ebbe veramente luogo e grande importanza durante la prima guerra mondiale. Quel principe geniale, comunque, aveva inventato i droni, o i loro antenati, vale a dire macchine volanti capaci di scattare fotografie senza l’intervento dell’uomo, salvo che in fase di programmazione. La vista dall’alto ci mostra dunque aspetti della terra che altrimenti non avremmo mai potuto vedere.

In una fotografia significativa, nulla va mai da sé, nulla si appiattisce sul referente, neppure le foto terribili dell’Archivio Oyneg Shabes o del journal di Emmanuel Ringeblum, di cui parla Geroges Didi-Huberman, che mostrano i morti e i morti viventi del ghetto di Varsavia, fotografati da amici ebrei, morti viventi che fotografano morti viventi, ma anche da militari nazisti e SS, cioè dai loro boia. Vedere queste foto, nota Didi-Huberman, non basta: bisogna «entrare in contatto» con esse e fare in modo che attraverso di esse questo contatto si prolunghi, nel nome della filosofia del contatto di Giorgio Colli.

Caterina Martino, dal canto suo, collega l’opera fotografica di Luigi Ghirri a Giordano Bruno, nel senso che ogni foto è un lavoro sulla memoria, e ogni paesaggio fotografato (qui il richiamo è a Barthes) deve essere «abitabile». Giuseppe Cosenza, invece, esamina la rilevanza della fotografia nella semiotica di Ferdinand de Saussure, che pure di immagini fotografiche sembrerebbe non essersi mai esplicitamente occupato, mentre Marco Mazzeo ricostruisce le obbiezioni di Wiittgenstein al procedimento di Francis Galton (cugino di Darwin e inventore dell’eugenetica) che pretendeva di identificare i caratteri d’una famiglia o di una tipologia sociale (per esempio i criminali) attraverso il procedimento della «fotografia composta», ossia mediante sovrapposizione meccanica di ritratti fotografici.

Leonardo Passarelli si occupa di immagini in cui il fotografo viene fotografato mentre fotografa, e partendo da questa premessa, mostra immagini inedite e impressionanti scattate durante l’impiccagione di Cesare Battisti a Trento.
Dispiace qui poter solo accennare agli altri interessanti contributi. Citiamo: Carlo Serra (fotografia e musica), Ciro Tarantino (fotografia e Primo Levi), Ines Crispini (fotografia e Freud), Claudia Stancati (fotografia come poetica dello spazio), Emanuele Fadda (sulla fotografia nella semiotica di Peirce), Daniele Gambarara (su Prieto), Carlo Fanelli (sulla messa in scena della guerra in Brecht), Daniele Garritano (su Susan Sontag). Conseguenze inevitabili nei libri composti a più mani. Speriamo solo che nessuno della lista, sentendosi offeso, non ci lanci una sorta di maledizione. Scatti del pensiero è un libro che ogni interessato alla fotografia dovrebbe comunque leggere.