Ai tempi dell’antropocene, quando sono le scelte degli uomini a determinare le condizioni climatiche del pianeta, i migranti sono tutti politici. Perché dipende dalla politica economica, dalla crescita trainata dal basso prezzo delle energie fossili e delle materie prime, dall’aver piegato alle esigenze di consumo delle megalopoli l’agricoltura di interi continenti, se nel Nord Africa il deserto avanza, e dilagano la carestia e le malattie.

E se le persone sono spinte, per se e per i loro bambini, a preferire il rischio della morte per acqua alla certezza della morte per fame e per sete, per colera, per dissenteria.

Nessuna strategia di contenimento, tantomeno la lotta agli scafisti, che non creano i flussi ma li sfruttano, e la scelta immorale di rendere più difficili le azioni di salvataggio delle Ong, ha senso se non ci si impegna a rimuovere le ragioni di fondo che stanno alla base di questa situazione.

Tanto meno l’”aiutarli a casa propria”, detto da paesi le cui ragioni fondamentali si scambio con i paesi del Sud del mondo è la vendita di armi, in cambio di petrolio e di materie prime.

L’ unico aiuto reale, che non cade cioè nelle mani di governi tirannici e corrotti, sono i progetti mirati all’istruzione, alla sanità, all’agricoltura, di alcune Ong, spesso le stesse che provano a salvare i migranti in mare, e soprattutto le rimesse dei migranti, che oltre a tenere in equilibrio il nostro sistema pensionistico, mandano nel Nord Africa soldi che vanno direttamente nelle mani delle persone che provano a sopravvivere nei villaggi e a ricostruire le condizioni minime di un’agricoltura di sussistenza.

Qualche speranza di costruire le condizioni politiche e il consenso di massa per affrontare le radici di fondo del problema è data dal fatto che gli effetti del riscaldamento climatico cominciano ad arrivare anche da noi.

I ghiacciai si sciolgono, facendo venir meno enormi riserve di acqua potabile, le olive sono più piccole e secche, le viti daranno due terzi del vino degli anni passati, le pannocchie di granturco sono, in molti campi del nostro paese, un formato bonsai brutto e rachitico delle pannocchie che eravamo abituati a vedere. La linea dell’olio e della vite tende a spostarsi sempre più a Nord.

Forse riusciremo ad essere abbastanza crudeli da fermare i migranti. Non riusciremo senza cambiamenti profondi nel nostro modo di produrre e consumare a fermare il deserto.

O forse riusciremo a capire e provare a far capire che il sistema economico e di vita per difendere il quale respingiamo i migranti è lo stesso che produce il deserto. Ci ha provato per ora solo papa Francesco.

La politica, dopo gli applausi di rito, del resto sempre più tiepidi, si ritrae, incapace di confrontarsi con la parte più scandalosa del suo messaggio, quella che dovrebbe portarci a rimettere in discussione le idee di sviluppo, di progresso, di benessere, su cui si e’ modellata la nostra economia e la nostra società.

Come vie di uscita dalla crisi politica ed economia si riproducono le stesse ricette del passato, in salsa neoliberista, e nel migliore dei casi, neo keynesiana. Le economie di scala, per creare gli attori economici capaci di imporsi nella economia globale, le innovazioni tecnologiche per incrementare la produttività, la creatività al servizio della costruzione di bisogni e consumi superflui.

Litighiamo con la Francia sulla cantieristica per avere a disposizione gli scali per fare le super navi da crociera- straordinari fattori di inquinamento dei mari- e pare che faremo la pace producendo insieme più grandi e potenti navi da guerra. Qualche incentivo sulle rinnovabili, ma ancora inferiori agli incentivi che vanno alle imprese che bruciano petrolio e carbone, per evitare che i costi di produzione superino quelli dei nostri concorrenti.

Si comincia finalmente a parlare di economia circolare, contro l’idea di crescita lineare e illimitata che ancora sta alla base della nostra idea di progresso, ma si fatica a tradurla in concrete misure di politica economica, perché la promessa di una crescita lineare e illimitata è quella che ha assicurato fino ad oggi il consenso e costruito una sintonia fra gli imperativi economici del sistema e gli stili di vita delle popolazioni dell’Occidente.

Una politica industriale che avesse a cuore la lotta al riscaldamento climatico dovrebbe ad esempio mettere sotto tiro il modo in cui si fabbricano i prodotti e se ne incentiva il consumo. Vietare ad esempio la produzione e la vendita di quello che non è riparabile, a costi molto minori del ricambio col nuovo. E magari fissare un protocollo di design dei prodotti che abbia incorporato le modalità del riuso delle componenti.

E provare, e questo è il più difficile ma ineludibile, a invertire la rotta rispetto ad una idea di progresso e di incremento della produttività avvenuta sostituendo il lavoro umano con l’energia fossile. Ritorno al passato? Al paese di prima della scomparsa delle lucciole? Non mi sembra l’accusa più grave da cui guardarsi, quando il mondo rischia di non avere più futuro.