Quanti anni ci vogliono per disegnare la «mappa letteraria» di un paese? Forse troppi, se sfuggono le coordinate da cui partire. Ma se tra quattro mura, al 2 bis di rue Hamani (già rue Charras) ad Algeri, si trovano le fondamenta della letteratura nazionale del Novecento, allora ecco che la libreria «Les Vraies Richesses» non è più – e soltanto – un posto dove acquistare e rivendere libri usati. Al contrario, è il luogo in cui si riunisce la Storia postcoloniale firmata da penne illustri. Albert Camus, André Gide, Jean Giono – che, con un suo testo, ha ispirato il nome della libreria – erano soliti frequentarla. Si sedevano sui gradini e correggevano i propri manoscritti. Lì, dove nascevano decine di volumi, c’era Edmond Charlot, primo editore-libraio d’Algeria, che nel 1936 fondò «Les Vraies Richesses».

FIN DAGLI INIZI degli anni Trenta, elaborava l’idea di produrre e commercializzare libri. Per lui, il significato di quello spazio fisico era strettamente legato alle mostre d’arte da ospitare, a quel genere di incontri che oggi definiremmo ‘eventi’ culturali. Al prestito librario, come in una comune biblioteca. Kaouther Adimi, classe ‘86, algerina come Charlot, si è fatta ispirare dalla sua vita e ne ha ripercorso le tappe. Aiutata dagli appunti del vecchio editore, ha inventato un diario che racchiude oltre trent’anni di storia: La libreria della rue Charras (L’orma editore, pp. 200, euro 16, traduzione di Francesca Bononi), suo terzo e più impegnativo romanzo, che sarà presentato al Festival della Letteratura di Mantova, domani 9 settembre. Dopo Pierres dans ma poche (Seuil, 2015) e Le ballerine di Papicha (Il Sirente 2017), Adimi ha intrecciato la biografia di Edmond Charlot con quella (immaginaria) di Ryad, ventenne del 2017, che viene richiamato ad Algeri, da Parigi, per smantellare la libreria del vecchio editore. «Les Vraies Richesses è sempre lì, continua a prestare libri ai suoi pochi frequentatori. Ho lavorato un po’ di fantasia, immaginandone la chiusura. Fortunatamente, alla parete c’è ancora il grande ritratto del vecchio Edmond e, sugli scaffali in mezzo agli altri, alcuni volumi rari delle edizioni Charlot. Bisogna assolutamente andarci, almeno una volta nella vita».

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L’AFFERMAZIONE DI ADIMI, oltre a rassicurare sulle sorti della libreria, suona come un invito. In perfetta continuità con l’ultima frase del suo romanzo, «un giorno ci verrai, al 2 bis della rue Hamani, vero?». Indurre a raggiungere quello strano luogo è il messaggio subliminale fin dalla prima pagina, quando il personaggio dell’acerbo e acneico Ryad non è ancora comparso e i vicoli intorno a rue Charras sembrano deserti ma frementi. C’è tutta Algeri e l’Algeria nel suo prologo: le statue dei grandi del passato, le baruffe tra gatti randagi, il complottismo popolare, l’inedia dei giovani e il ricordo delle bombe sulla città. Poi, ci sono i tomi, militarmente disposti sugli scaffali della libreria. Ryad può farne ciò che vuole, regalarli, portarli con sé a Parigi – dove l’aspetta la ragazza che ama -, persino buttarli. Ma ha in mente solo di sbarazzarsene, «fare le valigie e tornare da Claire, sperando che si metta ancora lo smalto azzurro».

NON VA D’ACCORDO con i libri, ma, tra uno e l’altro, scopre storie di persone che hanno affollato quella stanza dall’odore stantio. «Ho immaginato Ryad come un ragazzo innamorato e poco aperto agli altri – dice Adimi – Figuriamoci se gli interessa di una vecchia libreria e del libraio». Il suo, secondo l’autrice, non è però un ritratto stereotipato dei giovani. «Purtroppo, l’Algeria è ancora un Paese in cui la politica non dà molta importanza alla cultura. E Ryad, pur vivendo a Parigi, è figlio di quella società così disinteressata all’istruzione».

ACCANTO A LUI, il vecchio e scorbutico Abdallah, custode fedele che ha imparato a leggere al cospetto di quegli scaffali. Non si rassegna all’idea che al posto della libreria verrà aperta una ciambelleria. Non ci può credere che Ryad abbia gettato in strada decenni di letteratura, che un acquazzone porti via tutto. Anche i libri. «Ci ho messo più di un anno – spiega la scrittrice – a raccogliere il materiale necessario per il romanzo. Gli archivi sono sparpagliati qua e là e i testimoni sono quasi tutti morti. È grazie all’opera della famiglia di Charlot che tutto questo è stato possibile. I suoi parenti, gli amici hanno conservato ciò che hanno potuto e mi emoziona sapere di aver ridato lustro a un uomo dimenticato, in patria e nel mondo».