Ieri il presidente turco Recep Tayyib Erdogan ha passato il suo Rubicone: ad Ankara, alla base aerea di Murted, è arrivata su tre aerei cargo la prima tranche dei sistemi russi di difesa aerea S-400. Non una base qualsiasi: il 15 luglio 2016, giorno del fallito colpo di Stato, è stata uno dei centri di organizzazione dei militari golpisti. È stata bombardata per impedire che aerei decollassero o atterrassero. Prima si chiamava Akinci, l’hanno ribattezzata a favor di oblio.

Ieri qui, come annunciato dal ministro della difesa Cavusoglu, «il primo lotto dell’equipaggiamento del sistema missilistico di lungo raggio S-400 è iniziato ad arrivare». Le consegne proseguiranno nei prossimi giorni, con «oltre 120 missili di vario tipo» che giungeranno via mare. I sistemi, si dice, saranno operativi già a ottobre.

Mentre il Cremlino confermava, dal quartier generale dell’Akp, il partito di governo, tenevano a precisare che il sistema è volto a proteggere il paese e non ad attaccare qualcuno. Ma le dichiarazioni distensive servono poco in un contesto come quello regionale.

La Nato è in subbuglio. A 67 anni dall’adesione, uno dei suoi membri più strategici – secondo esercito per grandezza dell’Alleanza atlantica e sede di basi militari del Patto, tra cui Incirlik che ospita armi nucleari Usa – si mette in casa (è la prima volta che accade) strumentazioni russe. «Siamo preoccupati delle possibili conseguenze della decisione della Turchia», dice un ufficiale.

Preoccupazione è dir poco. Soprattutto alla luce del percorso compiuto dalla Ankara di Erdogan in questi ultimi anni. Le ultime puntate della saga sono note: Washington furiosa – lo è da mesi – per l’accordo russo-turco non ha mai consegnato i cento F35 che Ankara ha già pagato e ha sospeso l’addestramento dei piloti turchi. E minaccia, a ogni piè sospinto, sanzioni all’alleato nell’ambito del Caatsa, legge del 2017 con cui Washington ha già sanzionato Iran, Russia e Corea del Nord. Uno scenario già di per sé disfunzionale, ma il fulmine non arriva a ciel sereno.

L’anno chiave della rottura tra Stati uniti e Turchia è il 2016: il fallito golpe, risolto nel giro di una notte e furbescamente tradotto da Erdogan nella migliore occasione di epurazione di massa della storia recente turca, è stato attribuito al movimento Hizmet dell’imam Fethullah Gülen.

Vecchio sodale del “sultano”, con cui ha costruito un impero economico e subculturale dal sapore islamista, ha acquisito troppo potere per non diventarne avversario. Di Gülen, in auto-esilio in Pennsylvania, Ankara ha chiesto a ripetizione l’estrazione alla Casa bianca. Mai concessa.

Uno smacco che si è trascinato nella vicina Siria dove l’esercito Usa sostiene militarmente le Sdf, le Forze democratiche siriane guidate dalle Ypg/Ypj curde, altro nemico strutturale di Erdogan.

Non è un caso che il ritiro dei marines di stanza nel nord della Siria, pomposamente annunciato da Trump inizio anno non si è mai concretizzato. Restano lì, spina nel fianco del più ampio progetto turco di distruzione dell’esperimento politico democratico di Rojava.

È in tale contesto che l’avvicinamento alla Russia putiniana ha trovato terreno fertile. Inimmaginabile alla fine del 2015 quando l’aviazione turca abbattè un Sukhoi russo, era realtà appena un anno dopo. Teatro del disgelo è stata Astana e il processo di «pace» siriano imbastito da Teheran, Mosca e Ankara. E nel 2017 Erdogan decide di acquistare il sistema S400, scartando l’ipotesi dei Patriot americani che secondo la Nato sono gli unici compatibili all’equipaggiamento militare dell’alleanza.

Screzi se ne erano registrati anche nella definizione dell’accordo sui Patriot: gli Usa non hanno voluto trasferire le tecnologie strategiche che la Turchia chiedeva. Eppure ieri il ministro della difesa Akar affermava che la Turchia «sta ancora negoziando» per il sistema di difesa Usa.

La prima consegna segna uno spartiacque che rientra nella politica di potenza sognata da Erdogan: fare – o rifare – della Turchia la porta d’Oriente, porta bellicosa e assolutizzante, con un occhio che guarda Mosca e uno alla Nato. Un paese con ambizioni non più solo regionali, ma globali. Che dimentica però il peso della guerra persa nella vicina Siria (Assad è al suo posto, sebbene la Turchia da tre anni sia presente militarmente nel nord del paese) e quello della recessione figlia di un’economia familistica e di megaprogetti infrastrutturali, castelli di carta pronti a cadere come ha dimostrato lo scorso anno il crollo della lira turca, mai riavutasi dallo choc.

L’ombra delle sanzioni americane (che potrebbero andare dall’esclusione dal sistema finanziario Usa alla limitazione delle esportazioni) peggiorerà la situazione perché renderà ancora meno attraente la Turchia come destinataria di investimenti esteri.

Ankara da parte sua coltiva l’arma di ricatto delle basi Nato e guarda a Mosca: tre giorni fa il ministro dell’industria turco, parlando al forum turco-russo di Yekaterinburg, ha individuato in 100 miliardi di euro l’anno di interscambio il prossimo obiettivo, mentre la controparte russa vantava l’arrivo a breve in Turchia di investimenti consistenti e di lungo termine. Gli strumenti centrali saranno il gasdotto TurkStream e l’impianto nucleare di Akkuyu.