Chi è cresciuto con il paradigma eroe-antagonista dei primi anime televisivi ben conosce la pervasività di quel sistema bipolare. La ricerca di una terza via, di un diverso tipo di personaggio, è già segno di originalità. «Volevo essere Julian Ross», canta Pier Cortese nel suo ultimo album: «Tutti si immedesimavano in Holly o Benji, ma per me era lui l’eroe romantico, che insegue il suo sogno superando gli ostacoli». Dal giovane fuoriclasse malato di cuore il musicista romano rileva la fascia di capitano degli outsider, accettando anche di restare in panchina per una dozzina d’anni, tanto è durata l’attesa del nuovo album, Come siamo arrivati fin qui (Fiori Rari/Artist First). «In questi anni ho anche messo in conto di uscire dal giro», racconta; «avrei smesso di fare il cantautore, piuttosto che farlo senza libertà».

IL TITOLO indurrebbe a domande marzulliane, ma lui mette le mani avanti: «Figurati, di risposte ne ho sempre meno… L’album è un esame di ciò che succede nella nostra vita. Racconto le cose, più che interpretarle, cercando di osservarle anche da altri punti di vista. Ho dovuto stare dietro alla mia crescita, al cambiamento dei miei pensieri, della mia pelle». Il suo decennale pendolarismo Berlino-Roma influenza le sonorità sin dalla prima traccia, Un pigiama ci salverà, fondata su ritmiche modulari destinate a caratterizzare tutto il disco: «A Berlino ho conosciuto persone diverse e strumenti diversi, ricavando visioni per un viaggio inusuale. È stato come indossare occhiali nuovi». Il lessico visivo ricorre in più punti del discorso: canzoni come cortometraggi — complici i video di Walter Monzi — e atmosfere da colonna sonora. «Volevo esprimere concetti senza eclissare ciò che già la musica stava dicendo: ci sono melodie, note, ritmi che già suggeriscono cose che non è necessario ribadire».

CORTOMETRAGGI musicali, sinestesie difficili da confinare in generi precisi, tanto meno sotto la logora egida dell’indie, «che all’inizio era un movimento realmente rivoluzionario contro il sistema… C’erano i Bluvertigo, la Donà, gli Afterhours… Poi è diventata un’etichetta interna al sistema stesso, un archivio in cui è finito un pop ancor più pop di quello degli anni Novanta».
Oltre le categorie, il tentativo di Pier è «mettere assieme dei paradossi musicali», coniugando le lezioni di Tenco e Battiato con quella di James Blake, in un linguaggio «né vecchio né nuovo». A legare i singoli episodi, oltre alla mano del musicista (chitarre, voci, Prophet, Ipad, drum machine, basso e 3D) c’è quella del produttore, già apprezzata da Niccolò Fabi, Roberto Angelini, Emanuele Colandrea e tanti altri. Cooperazioni che restituiscono il tessuto sociale dell’attuale scena romana: «Non so se si può parlare di scuola, ma di certo c’è una forte solidarietà. Mi ritrovo con miei coetanei, di quaranta o cinquant’anni, che magari hanno una famiglia e una figlia, come me, e li scopro compagni di una scelta difficile. E questa, per me, è una bella pacca sulle spalle!».