Una love story di attrazione e di abbandono

Il mio Oscar, con doppia statuetta, miglior regia e miglior film, è P.T.Anderson per Il filo nascosto, miglior film straniero Corpo e anima di Ildiko Enyedi. È solo un gioco probabilmente vincerà La forma dell’acqua di Del Toro, orgoglio messicano che di Phantom Thread non ha la perversione sensuale né la tensione del desiderio trasformata in immagine. Come filmare una storia d’amore di attrazione e di abbandono, una «captive» sospesa tra fragilità e violenza, il tumulto dei sentimenti, l’eterno e universale loro «ricatto», l’essere insieme e al tempo stesso dichiararsi qualcun altro, in un quasi massacro a due condiviso che è piacere e scoperta, fisico come le stoffe che frusciano nell’atelier del sarto Daniel Day Lewis, e le ricette che Vicky Krieps prepara per lui, funghi scelti con cura condividendo il rischio di lasciarsi andare trasportando la libertà lisergica in una «forma» solo in apparenza trattenuta, i cui «fili nascosti» ci sorprendono creando continui detour verso l’altrove.
Spielberg con il suo The Post non c’è tra i migliori registi, e invece il suo The Post è una sfida, la ripresa di un cinema politico esibito che fa della regia lo strumento primario per non precipitare nella retorica del «politicamente corretto». Film straniero Corpo e anima e non perché è una regista donna, non siamo nelle «quote rosa» – e che fastidio questo continuo mischiare pruderie wasp con una battaglia che dovrebbe capovolgerne gli intenti – ma perché tra tutti gli altri è l’unico sguardo di un cinema aperto, che sa amare i suoi personaggi guardando nel profondo della loro sostanza e lascia allo spettatore la libertà di scegliere dove stare. In tempi di cinema postumano che scambia il proprio autoritarismo con un gesto filosofico. Cristina Piccino

L’anima sovversiva di un amour fou acquatico
La doppia presenza di La forma dell’acqua e Get Out tinge di horror l’Oscar 2018. L’ultimo genere stigmatizzato dall’estetica del grande cinema d’autore (come ricorda sempre Guillermo Del Toro) tende a fiorire in tempi turbolenti. Come l’America a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 (che ci diede Romero, Carpenter, Craven) o quella di oggi. La deriva moralistico/perbenista che affligge l’establishment culturale «liberal» rende ancora più da festeggiare il trionfo dell’anima sovversiva del cinema fantastico e di paura. Tra l’insanguinata commedia satirica di Jordan Peele (l’omaggio alla blaxploitation che non è in Black Panther) e la fiaba acquatica di Del Toro, la scelta non è facile. Alla fine, per miglior film, il mio voto va all’amour fou di La forma dell’acqua, perché tra i due è il gesto più complesso. E poi, come dice Guillermo, «they fuck». Fortissima la tentazione di sottoscrivere al culto di PTA e dare al regista del Filo nascosto l’Oscar per la miglior regia – con lui la membership nel club dei cinefili è garantita, non ci si sporca le mani. In realtà, questo film «europeizzante», trattenuto, mi piace molto meno degli altri. Dietro alla macchina da presa, Spielberg è generalmente imbattibile ma, rispetto al Ponte delle spie e Lincoln, The Post è poco interessante, politicamente e dal punto di vista formale. Quindi anche la regia va a Del Toro, e alla sua capacità di trasportarci in un altro elemento. Giulia D’Agnolo Vallan

Campagne, voti e maschi bianchi cinquantenni 

È più divertente scommettere sul trotto che sui premi Oscar, manifestazione del gusto medio degli addetti ai lavori dell’industria nordamericana influenzati da pesanti campagne pubblicitarie e grossi investimenti delle case di produzione. La media dei votanti, ci dicono le statistiche, sono maschi bianchi cinquantenni. Quest’anno The Shape of Water (La forma dell’acqua) di Guilermo Del Toro potrebbe essere un giusto compromesso tra critica e gusto medio, una scommessa ovvia che del resto dai bookmakers è data solo a 1.10.  Frances McDormand  dovrebbe meritare il premio per la migliore interpretazione femminile per Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh e Gary Oldman come migliore interpretazione maschile per L’ora più buia di Joe Wright (altre due opzioni in testa alle classifiche. Sarebbe una sorpresa se Timothée Chalamet di Chiamami con il tuo nome di Luca Guadagnino gli togliesse lo scettro. Per il miglior film straniero pensiamo che la profondità e la costruzione di Loveless del russo Andrey Zvyagintsev, un universo senza via d’uscita, non abbia rivali. Ma imperscrutabili sono le scale di valori dell’Academy, pilotate ogni anno da eventi contingenti, come quest’anno il caso Weinstein & compagni. Silvana Silvestri

 

La quattordicesima nomination di Roger Deakins

Sarebbe bello, prima di tutto, se la quattordicesima nomination per la miglior fotografia fosse quella buona per Roger Deakins, che con il suo lavoro in Blade Runner 2049 ha saputo reinventare – restandogli fedele – l’immaginario visivo di uno dei film di sci-fi più amati di sempre, e nel corso degli anni si è collocato fra i direttori della fotografia più sensibili e talentuosi di Hollywood restando – come spesso accade ai migliori – a secco di statuette. L’auspiio per il miglior film e regia va a PT Anderson e il suo Filo nascosto, love story che affonda nei meandri più tortuosi – e proprio per questo più affascinanti – dei sentimenti. Solo per l’espressione con cui mangia la sua omelette di funghi, il protagonista Daniel Day Lewis 8che già detiene il record di vittorie) meriterebbe il suo quarto Oscar – che gli auguriamo di conquistare. Giovanna Branca

 

Sfide per dare  vita a un altro immaginario

Qual è il miglior film? La rosa dei candidati non è particolarmente petalosa quest’anno. Alcuni petali sono talmente raggrinziti che vanno via da sé. Lady Bird è un film mediocre di un’attrice (Greta Gerwig) sopravvalutata nota per un film (Frances Ha) senza alcun interesse. Il film di Spielberg (The Post) è probabilmente il più ideologico del gruppo. All’apparenza liberal, è, a scavare un po’, un film assolutamente reazionario. Dei due film storici c’è poco da dire. Dunkirk è senza dubbio superiore a L’ora più buia. Ma non è il miglior film della rosa. La vera gara è tra La forma dell’acqua e Il filo nascosto – Phantom Tread. Sono due opere diverse. La sceneggiatura di Del Toro è quasi inesistente. Il film di Paul Thomas Anderson è al contrario un romanzo filmato, molto efficace nella psicologia dei suoi personaggi. Ma curiosamente squilibrato alla fine: come uno strappo in un ricamo perfetto. In entrambi si tratta di creare delle immagini mai viste dentro un immaginario per altro noto. Entrambi ridanno forma al già visto. Tra i due il cuore va verso Del Toro, la ragione verso Paul Thomas Anderson. Eugenio Renzi

 

Nuovi corsi nella Hollywood post-Weinstein

Non potrà che essere così: gli Oscar 2018 dovranno indicare la linea morale e politica del dopo-Weinstein. E questa, ovviamente, è una roba che inquieta perché Hollywood, di tutta la faccenda Weinstein, non pare avere capito molto. Si tratterà quindi di una operazione di cosmesi nella quale Hollywood ancora una volta si offrirà come cuore progressista degli Usa, allontanandosi invece ulteriormente da un paese impoverito e sfiduciato. Greta Gerwig volto di questo pseudo-rinnovamento è la peggiore delle ipotesi. Cui fa da corollario il neo-accademismo di Paul Thomas Anderson. Motivo per cui non si può non sperare che Call Me By Your Name si porti a casa tutte le sue statuette, perché, se non altro, quella di Guadagnino è una visione del cinema e della vita non asservita al moralismo di riporto hollywoodiano. E così, mentre Woody Allen brucia ancora una volta in effige, l’Academy ci assicura che va tutto bene. Last Men in Aleppo, fra i documentari, è l’evidenza che anche in politica estera e sulla Siria in particolare, si continua a brancolare nel buio. Restano quindi Del Toro, Get Out e poco altro. Poi certo: sarebbe ora finalmente di dare un Oscar a Roger Deakins che con Blade Runner 2049 si è superato ancora. Ma figuriamoci se succede. Giona A. Nazzaro

 

Jonny Greenwood, il fascino di una rockstar sul red carpet

La musica come elemento essenziale per la resa completa di un film. Peccato quindi che, spesso, gli Oscar dedicati alla migliore colonna sonora passino un po’ in secondo piano. Quest’anno a contendersi la statuetta alcune sono decisamente ispirate. Favorita – per molti – è quella curata da John Williams per l’ennesimo capitolo della saga di Star Wars. Ma non sorprenderebbe vedere sul podio il nome di Carter Burwell – nominato per Tre manifesti a Ebbing, Missouri, con una curatissima scelta di brani originali e scelte di repertorio. Ma meriterebbe l’Oscar il connubio azzeccatissimo fra Paul Thomas Anderson e la mente geniale (insieme a Thom Yorke) dei Radiohead, Jonny Greenwood. Una rockstar sul red carpet starebbe benissimo, anche perché le sperimentazioni sonore del musicista di Oxford sono tra gli elementi che fanno di Il filo nascosto uno dei capolavori indiscussi della stagione cinematografica. Gran lavoro per il compositore francese Alexandre Desplat che ha riempito di citazioni, contaminazioni e sonorità «liquide» La forma dell’Acqua di Guillermo del Toro, colpo al cuore una chanson romantica come La Javanaise di Madeleine Peyroux. Per la miglior canzone nessun dubbio: Mighty Real interpretata da Mary J. Blige per il film Mudbound griffato Netflix, dove è anche candidata come miglior attrice non protagonista. Stefano Crippa

 

Storie collettive e fragilità esistenziali

Esiste un filo sottile, ma non nascosto, che lega tra loro le nove opere candidate all’Oscar per il miglior film. Quel nesso è rappresentato dalla libertà e da almeno due possibili declinazioni: la prima associa quel termine al tentativo di (ri)prendere il controllo della situazione; l’altra restituisce allo spettatore il senso di fragilità e imprevedibilità della vita. La forma dell’acqua, Scappa: Get Out, The Post, Tre manifesti a Ebbing, Missouri, L’ora più buia e Lady Bird raccontano storie collettive o personali nelle quali i protagonisti sono in conflitto con l’ambiente circostante o con un nemico che minaccia di annientarli. Più complessi e affascinanti sono Il filo nascosto, Dunkirk e Chiamami col tuo nome, scritti in quest’ordine di preferenza a suggerire l’ipotetico podio, in assenza di Detroit di Kathryn Bigelow.I film diretti da Paul Thomas Anderson, Christopher Nolan e Luca Guadagnino dialogano con la radicale contingenza e la fragilità dell’esistenza, non dando mai certezze, anche quando si tratta di rielaborare una guerra nella quale si sa da che parte stare (ma a che prezzo?) o di raccontare storie d’amore che possono durare nel tempo o per una sola breve stagione. Mazzino Montinari