Il centro gravitazionale di qualsiasi pellicola ambientata nell’altopiano del Tibet, in particolare nella regione impervia e isolata di Hoh Xil (conosciuta anche come Kekexili o Aqênganggyai), è inevitabilmente il contesto naturale, il paesaggio, la vastità idealmente infinita dell’orizzonte, l’imponenza delle montagne. Kekexili era il titolo originale dell’ispirato e crudo Mountain Patrol-Battaglia in paradiso (2004) di Lu Chuan, lungometraggio passato a suo tempo al Pesaro Film Festival; Kekexili è oggi il motore narrativo e la ragion d’essere di Jinpa dello scrittore e regista tibetano Pema Tseden, che pochi giorni fa alla Mostra del Cinema di Venezia è stato premiato per la miglior sceneggiatura nella sezione Orizzonti. Già, l’orizzonte, quello che sembra accerchiare il camionista Jinpa, intrappolandolo in uno spazio-tempo indefinito, apparentemente sempre uguale. Come il suo compagno di viaggio, anche lui Jinpa, in cerca di vendetta: entrambi attraversano l’altopiano, avanti e indietro, ieri come oggi, probabilmente anche domani.
Guardando Jinpa la mente richiama il film di Lu Chuan, quasi come fosse ieri: per l’ipnotica vastità dell’altopiano quindici anni sono un battito d’ali di farfalla, un tempo che nulla può contro le catene montuose o quelle strade silenziose e deserte, attraversate da forti venti e da camionisti solitari. È anche questo il film di Pema Tseden, una storia di solitudini, di vite difficili; di giornate che si susseguono, sempre uguali; di un deserto di sassi, privo di vegetazione e di ripari, privo di acqua e compassione. La fotografia di un territorio che dal 2017 è patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco: il luogo meno popolato della Cina, il terzo meno popolato al mondo, eppure proteso verso una flebile speranza di cambiamento – un mutamento sociale ed economico, e forse anche morfologico, del quale dovrà farsi carico il governo cinese, forse l’unico che ha la forza per plasmare nel bene o nel male il destino di una intera regione, di una fetta di mondo. Jinpa cerca di raccontarci due storie che diventano una, incorniciata da una serie di interni: il camion, la locanda, il negozio. Due storie che si intrecciano, si sovrappongono e diventano esplicita metafora. Pema Tseden cerca di indagare i sogni, di tratteggiare un ponte tra lo spaesamento dei due Jinpa e l’immutabile fissità dei luoghi. Una narrazione che si tinge di bianco e nero e di colori, per cadenzare flashback e tempo presente, calma e rabbia, pacificazione e vendetta. I due Jinpa ci appaiono via via sempre più speculari, sovrapponibili, anche fisicamente, come se fossero lo stesso personaggio che attraversa il tunnel del tempo fino a raggiungersi, imboccando finalmente il bivio giusto.
Jinpa è un film sulla redenzione, sulla capacità di uscire da un circolo vizioso, chiuso. Anche la sua scrittura e architettura narrativa, così sfuggente, cerca di aprirsi a più interpretazioni, a più livelli di lettura.
Partendo dalle immagini, dai sogni, Pema Tseden vuole forse indicarci un possibile futuro dell’altopiano del Tibet, della regione di Kekexili, di un mondo altro che vive a cinquemila metri di altitudine. Un futuro – finalmente – segnato dal cambiamento. Un futuro anche per il cinema tibetano, che per forza di cose deve trovare la sua linfa nell’industria cinematografica cinese, nello sguardo illuminato dei produttori. Non a caso, Jinpa è nato sotto la buona stella di Wong Kar-wai.Poco prima del premio alla sceneggiatura, abbiamo incontrato Pema Tseden, che a Venezia e a Orizzonti aveva presentato nel 2015 il precedente e sofisticato Tharlo. Una buona occasione per confrontarsi su un film volutamente sfuggente, etereo, onirico, figlio di una poetica che cerca di mettere in scena paesaggi naturali e paesaggi interiori.

Partiamo dalla scelta di una location così impervia come il Kekexiliǐ, nel cuore del Tibet…

Avevo bisogno di un territorio aspro e molto poco popolato per raccontare questa storia, che è anche una storia di solitudine. Solo un territorio così privo di tutto – vegetazione, animali, persone – poteva rendere al meglio l’assurdità di una narrazione come quella che avevo in mente.

Ed è possibile che questo spazio servisse anche per rispecchiare l’immutabilità del tempo e della cultura locale?

Certo, la scelta della location ha un valore anche fortemente metaforico, perché questi spazi immensi riflettono non solo la desolazione che deve essere attraversata ma anche la solitudine che è parte dell’interiorità dei protagonisti, dell’autista del camion quanto del killer che trova sulla sua strada. La loro solitudine è già rintracciabile nel Kekexili, nel suo deserto di sassi.

Una scena da «Jimpa»

Può dirci qualcosa sull’utilizzo tanto del colore quanto del bianco e nero?

Ci sono diversi livelli di interpretazione possibili per quanto riguarda la scelta cromatica del film. Il primo è ovviamente narrativo: il colore rappresenta infatti gli eventi nel tempo attuale mentre il bianco e nero fa riferimento a ciò che è accaduto nel passato. Però si può scendere anche a un secondo livello, in maggiore profondità. Mentre il colore sta a narrare la calma, il bianco e nero riassume in sé il concetto di vendetta, e quindi anche la furia, la violenza senza controllo. Il bianco e nero mette in scena l’ossessione, l’ansia del killer di poter finalmente vendicare il torto subito anni prima.

Wong Kar-wai risulta tra i produttori esecutivi di «Jinpa». Com’è avvenuto l’incontro con lui?

L’incontro è stato molto semplice, gli ho sottoposto la sceneggiatura di Jinpa e dopo averla letta ha deciso di produrla. L’apporto di Wong Kar-wai è stato fondamentale anche per la sua presenza sul set, e per le impressioni che ha dato durante la lavorazione, punti di vista sempre differenti che penso abbiano permesso anche di migliorare il film.

Il film si apre su una citazione di un detto tibetano che parla del sogno. Cos’è il sogno per Pema Tseden?

Innanzitutto potremmo dire che anche la lavorazione di un film, nella sua strutturazione, è come un sogno. C’è poi ovviamente un secondo livello, che è quello della percezione del pubblico di ciò che sta avvenendo sullo schermo. Jinpa narra anche di sogni, di memorie che sono sogni e di realtà rarefatte e sospese che potrebbero appartenere allo stato del sogno. Per questo ho inserito quella citazione all’inizio. Mi sembrava cogliesse il punto centrale della vicenda.

Tornando al Kekexiliǐ e al suo aspetto quasi lunare. Quale pensa sia il futuro per questo territorio all’apparenza così immutabile?

Quell’area, nella sua estrema povertà, ha vissuto tempi duri. C’è stata un’epoca in cui vivere nel Kekexili significava avere poche speranze di sopravvivere realmente. Ora quel tempo però è finito, perché l’area è patrimonio dell’Unesco ed è tutelata con molta attenzione anche dalle leggi. So che ci sono piani che prevedono una cura sempre maggiore del territorio e di chi vi abita all’interno, e sono certo che nel futuro prossimo le cose non potranno che migliorare.