Migliaia di operatori sanitari della Liberia hanno incrociato le braccia ieri e aderito allo sciopero indetto dalla Liberia National Health Workers Association. Chiedono un’indennità di rischio pari a 700 dollari al mese (quella attuale è di 500, in aggiunta a un salario mensile di circa 250 dollari) per chi si occupa dei malati di Ebola e la fornitura di equipaggiamenti necessari a garantire loro un’adeguata protezione contro il rischio contagio. Un incontro con il governo giorni non ha sbloccato la situazione, con tutto ciò che comporta uno sciopero ad oltranza per le centinaia di pazienti ricoverati nelle Ebola Treatment Units (Etu).

A denunciare una situazione inquietante quanto surreale è stato da Monrovia il segretario generale dell’associazione liberiana, George Williams, secondo cui 8 operatori su 10 (vale dire l’80% di loro) sono sprovvisti del kit protettivo e costretti a riutilizzare gli stessi indumenti che dovrebbero essere invece rigorosamente destinati al macero una volta usati. Così tutte monouso, mascherine usa e getta, occhiali protettivi, guanti, scafandri e quant’altro vengono riciclati invece che bruciati poiché, in mancanza di quantità sufficienti, restano l’unico mezzo per entrare in contatto con infetti e deceduti, prestare loro le cure necessarie e occuparsi dei corpi delle vittime.
«C’è bisogno che ci sia un appropriato coordinamento di ciò che viene donato dalla comunità internazionale – ha continuato Williams – Sentiamo parlare di milioni di dollari di denaro donati dai contribuenti e apprezziamo ogni centesimo. Ma abbiamo bisogno di vederlo presso le strutture sanitarie».

In effetti a oggi dei più di 1 miliardo di aiuti promessi da Stati Uniti, Gran Bretagna e altri donatori solo meno di un quarto è stato effettivamente impegnato.

Finora in Liberia sono 95 gli operatori sanitari morti per aver contratto Ebola e più di 2,300 il numero totale dei decessi nel Paese, oltre ai 778 confermati, probabili e sospetti in Guinea, 8 in Nigeria e 930 nella Sierra Leone che portano a un bilancio complessivo di più di 4,000 vittime: 233 tra il personale sanitario.

Tutti Paesi con strutture socio-sanitarie assolutamente inadeguate ad affrontare un’emergenza dal calibro ormai pandemico. Secondo i dati forniti dall’Afri-Dev. Info – Information & Analysis on Health, Population, Human & Social Development Agency, in Liberia ci sono 51 medici su una popolazione di 4,190,000 abitanti (vale a dire in media 0,1 medico ogni 10 mila abitanti), 978 tra infermiere e ostetriche (2,7 ogni 10 mila abitanti) e 269 farmacisti (0,8 ogni 10 mila abitanti). Le cifre per Guinea e Sierra Leone si aggirano intorno alle stesse cifre o sono drammaticamente più basse.

Intanto a lanciare un altro allarme è stato – a margine di alcuni incontri a Washington del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale – Donald Kaberuka a capo dell’African Development Bank, esprimendo preoccupazione in merito al fatto che gli aiuti promessi da alcuni donatori consisterebbero nello spostare risorse finanziarie già precedentemente allocate su altri progetti di sviluppo per destinarle all’emergenza Ebola: «Ho detto ai donatori che spero che quanto stanno annunciando siano risorse aggiuntive perché se così non fosse… una volta che l’emergenza sarà passata non avremo più risorse per costruire i sistemi sanitari e continuare la ricostruzione».
Ma di questo è ben conscia l’Organizzazione Mondiale della Sanità, vale a dire l’organismo deputato a gestire – meglio e in tempo – una situazione ad oggi chiaramente incontrollabile. Lo sa bene il suo direttore generale, Margaret Chan, il quale dichiara che l’epidemia sta minacciando «la sopravvivenza stessa delle società e dei governi nei paesi già molto poveri. Non ho mai visto una malattia infettiva contribuire così fortemente al potenziale fallimento dello stato».