L’edizione numero 71 si è chiusa coi saluti del direttore, Carlo Chatrian, e del suo gruppo di lavoro, in attesa del nome di chi che prenderà il suo posto e del festival che verrà. Ha vinto il cinema che parla del presente, che cerca di interrogarsi su come ricostruire un confronto non scontato con la realtà, guardando tra le pieghe dei «Grandi Temi», illuminandone le zone meno visibili, ciò che rimane fuori da fotogramma. Quasi si fossero accordate le giurie dei due concorsi, internazionale – presidente Jia Zhang-ke – e Cineasti del presente (Ben Rivers, Andrei Ujica, Laetitia Dosch) sono andate in questa direzione, un dato ricorrente anche nell’insieme dei titoli visti. Peccato lasciare fuori dal palmarés del concorso internazionale il bel film di Alberto Fasulo, e non lo dico per nazionalismo, rispetto a altri titoli premiati, Menocchio è un film che riesce a cogliere con lucidità la dimensione universale del conflitto umano – il rapporto col potere, quello tra individuo e comunità – fuori dal tempo e insieme in un tempo attualissimo a partire dal lavoro col cinema: messinscena, immagini, corpi, attori, paesaggio fisico e emozionale, ma il cinema italiano a Locarno nei premi non si impone quasi mai – nonostante l’italianità diffusa in tutto il festival.

A Land Imagined, il Pardo d’oro 2018, del giovane Yeo Siew Hua è un film che guarda al presente da quel laboratorio della globalizzazione che è Singapore, tra i paesi più ricchi al mondo, la cui «etichetta» campeggia anche sui manufatti degli stilisti «creativi», grazie a una manodopera di lavoratori stranieri – che arrivano da Malesia, Bangladesh, Cina – sfruttati, senza diritti, la cui vita vale (come vediamo senza andare troppo lontano in qualsiasi campo di pomodori nell’Italia del sud) meno di niente. Yeo Siew Hua mescola la realtà all’allucinazione – ma forse l’una è lo specchio dell’altra – dai siti dove lavorano e vivono gli operai clandestini, ostaggio delle aziende che gli prestano denaro e gli sequestrano il passaporto, dove la luce è sempre accesa di notte e nessuna norma di sicurezza viene rispettata ai luoghi di incontri e fantasie virtuali (anche la ribellione è ormai solo una tra queste), solitudini che vagano in notti senza fine.

Sostenuto dall’Hubert Bals di Rotterdam A Land Imagined è un sintonizzato (cinematograficamente) sull’aria dei tempi, a cui si accorda con l’utilizzo talentuoso di crossover suggestioni e riferimenti che oggi sembrano caratterizzare il cinema indipendente. È comprensibile che sia piaciuto a Jia Zhang-ke perché ricorda qualcosa degli universi che raccontavano i suoi primi film, come The World, anche se i riferimenti di Yeow Sew Hua sembrano più essere Wong Kar- wai e il cinema di Hong Kong e Taiwan degli anni Novanta, con le canzoni che narrano l’intimità cei personaggi e quella dimensione acquatica, di un noir insonne, in cui l’incubo crea altri mondi o forse è esso stesso quella distopica realtà.
Wang operaio cinese infortunato sul cantiere sparisce all’improvviso. Dicono che dopo l’incidente aveva smesso di dormire, che passava tutte le sue notti in un E-lovers caffè attratto dalla ragazza che lo gestisce, e da un misterioso alias incontrato in rete che sembra confondergli ancora di più la percezione del mondo. Ajit, il suo amico del Bangladesh, che voleva fuggire non si trova più: è morto o è l’ennesima bugia dei padroni per farli impazzire?

Un poliziotto anche lui insonne indaga. Ha la capacità di entrare nella testa delle sue vittime, un po’ True Detective, un po’ Lynch diventa Wang. Però: come salvarsi? Intorno le luci lontane della metropoli, potere e ricchezza, i grattacieli della City, il lusso, lo sfavillio che qui non vediamo, la gente che li costruisce è e deve rimanere invisibile. C’è solo sabbia e terra e polvere che serve a allargare l’isola, a fornire nuovi terreni su cui costruire ancora, investire, produrre guadagno… E se tutto fosse immaginato? Quel Paese stesso, il mondo in cui ciascuno sembra venire risucchiato. Si può avere ancora diritto a un istante di felicità o è ormai solo un altro sogno?

In Chaos – premio dei Cineasti del presente – Sarah Fattahi torna agli stessi temi e atmosfere del precedente (e molto premiato) Coma (2015), il ritratto quotidiano di due donne nella guerra in Siria che chiuse nel loro appartamento cercavano di misurare il tempo della propria esistenza con quello della guerra. Anche qui le protagoniste sono donne, tre, una in Siria, a Damasco, una in Svezia e un’altra in Germania, le cui esistenze continuano a essere segnate dal conflitto, anche per chi come due di loro ne è lontano, rifugiato in Europa. La scelta di regia è nuovamente quella di uno spazio chiuso, le mura dell’appartamento che sono come quelle del cuore, di una ferita rimasta aperta. Ognuna ha perduto qualcuno, un fratello, un figlio come la donna rimasta a Damasco che ha smesso di parlare e chiede vendetta. La giovane che vive in Svezia soffre di depressione, ha perso se stessa più volte, pillole, pensieri suicidi – «Ma non ho la forza di farlo». La vita è sospesa nella solitudine, nell’angoscia. La terza prova a capire il Paese in cui è arrivata, cerca di costruire seguendo il filo dell’esperienza di qualcuno in passato, una possibile relazione tra il suo stato di emigrata e la Storia.

Indagare sul dopo, su quanto non viene raccontato fuori dalle immagini di bombe o di esodi, cosa significa «ricostruire» (o ricostruirsi) è la scommessa del film, che si racchiude soprattutto nell’esperienza della ragazza in Svezia, dura, violenta nonostante la pace, un conflitto continuo e senza tregua. Eppure nella relazione tra la regista e i suoi «personaggi» qualcosa non funziona: è forse una questione di sguardo? Ci sono molti punti di fuga, molti frammenti, divagazioni: forse bastavano le parole con la loro disperazione, un ascolto diretto e meno manipolato, una maggiore semplicità.