La scelta di salvare il sistema finanziario immettendo crescenti dosi di denaro a buon mercato nei circuiti internazionali non è il risultato della pandemia globale. L’espansione dei bilanci delle banche centrali è in corso da diversi anni, strumento di ultima istanza utilizzato per fronteggiare la crisi degli anni 2008-2012.

L’attuale contesto ha rafforzato e implementato le politiche di espansione monetaria, con la parziale novità che una parte, seppur minoritaria, di questo flusso finanziario ha preso la strada del sostegno diretto a redditi e imprese.

Conseguenza di tale politica espansiva che privilegia il versante finanziario, è stata l’assenza, sin qui, d’inflazione reale in presenza di una forte inflazione da asset. Le ingenti quantità e disponibilità di capitali hanno reso ancora più vigorosa l’attività strettamente speculativa.

In assenza di ampi spazi per investimenti produttivi, la domanda di titoli è stata lo sbocco principale di questa enorme massa monetaria. Il risultato è la crescita degli asset finanziari, in barba ad un andamento enormemente problematico dei rendimenti reali sottostanti a quei titoli finanziari.

Basti qui ricordare che l’indice DJ di Wall Street è oggi ai massimi storici con una capitalizzazione cresciuta oltre il 10% sull’andamento pre-covid e di oltre il 50% rispetto ai minimi di marzo 2020.

Non si tratta di ipotizzare una netta divisione tra capitale finanziario e produttivo. In questi anni fondi speculativi hanno acquisito ruolo in aziende vocate alla produzione, e giganti produttivi si sono finanziarizzati.

La ricchezza finanziaria crescente, in quota parte «fittizia», è la base che ha permesso una certa dose di «paradossale keynesismo finanziario privatizzato», come lo chiamerebbe Riccardo Bellofiore, svolgendo un ruolo non secondario sulla tenuta della domanda.

La crisi è in larga parte il segnale della difficoltà a proseguire su questa strada, ma l’assenza politica di alternative compiute ha reso il prolungamento della crescita dei corsi finanziari un obiettivo empirico da perseguire con ogni mezzo da parte dei governi in carica.

Il meccanismo per certi versi si autoalimenta in attesa che accada qualcosa. Il ruolo delle banche centrali va collocato in questo contesto, ma non potrà durare in eterno.

Il piano Biden e i conflitti intraeuropei sul debito e la politica monetaria sono da leggere all’interno di queste contraddizioni e della difficoltà di prefigurare gli assetti futuri.

Dentro tale instabilità stanno cambiando i rapporti di forza economici e i meccanismi concorrenziali anche tra i grandi capitali, finendo per modificare gli assetti di settori quali High-Tech, farmaceutico, logistica, commercio e non solo.

Il Covid-19 ha brutalmente accelerato contraddizioni e processi di trasformazione già in essere.

Una tendenze evidente è il rafforzamento della concentrazione produttiva e finanziaria. Essa avviene attraverso fusioni, occupazioni repentine di importanti aree di mercato, fallimenti dei competitor, ma anche acquisizioni dei fondi speculativi. La montagna di ricchezza finanziaria alla ricerca di nuova valorizzazione, diviene fattore di ulteriore spinta alla concentrazione.

Un esempio è la crescita dei private equity, investimenti finanziari a medio termine in imprese ad alto potenziale di sviluppo, realizzati da fondi d’investimento istituzionali.

Solo nel primo bimestre del 2021 la crescita dei private equity è stata del 60% rispetto alla media del medesimo periodo degli ultimi cinque anni. I grandi fondi accrescono il loro ruolo pervasivo su assetti proprietari e scelte d’investimento.

Monopoli e oligopoli diventeranno così ancor più la cifra dell’economia di mercato post-pandemica. Tali processi colpiscono i piccoli attori, disincentivando l’innovazione e gli investimenti privati, aumentando diseguaglianze e posizioni di rendita.

Si fa un gran parlare del ruolo dello Stato, ma dovremmo anche tornare a parlare di cosa sia oggi il mercato.