Dave Gahan, Marc Almond e Andy Bell, solo per nominarne alcuni, Alison Moyet è una voce immediatamente identificabile con il pop, e i suoi eccessi, degli anni ’80. La voce calda e straordinaria della vocalist inglese infatti squarciò la coltre del gelido decennio quando Vince Clarke, dopo aver abbandonato i Depeche Mode, la scelse per i suoi Yazoo, pionieri del Synthpop/New Wave. Come i coevi Soft Cell, Vince Clarke comprese che la musica elettronica non necessitava di voce robotiche alla Gary Numan e Ralf Hütter, e nemmeno di timbri solenni e «senza tempo» come il già citato Dave Gahan, ma, al contrario, aveva bisogno di reggersi sulla potenza di un discordanza millenaria come il buio e la luce.

Dopo i due dischi eccezionali però, Upstairs at Eric’s e You and Me Both, Clarke e il suo genio inquieto liquidano gli Yazoo per altri percorsi musicali e per la Moyet non resta che una carriera solista. Primo album Alf nel 1984, dove la sua voce-strumento comincia a sperimentare con tonalità, suoni e temi. Other è il nono lavoro solista, uscito lo scorso 16 giugno e che la cantante porterà in Italia per un’unica data il prossimo 17 dicembre a Milano, dallo scioglimento degli Yazoo e, rispetto ai precedenti, riporta prepotentemente la Moyet alle sue radici elettroniche. Dopo una prima esperienza a fianco di Guy Sisgworth, produttore di Bjork, Madonna e Goldie, per la precedente, bellissima raccolta del 2013 The Minutes, dove paesaggi sonori di lussuosa elettronica si sposavano con uno straordinario lavoro sui testi, Other, a un primo ascolto, risulta quasi superlativo nella sua semplicità.

Fin dalle prime note di I Germinate, splendido brano di apertura dal ritmo solenne e cinematografico, quasi da titoli di testa di un film di James Bond, Alison Moyet riesce nel miracolo di far vibrare di modernità stilemi e influenze di quasi cent’anni di musica. Nelle tracce a seguire, da The English U che ricorda certe atmosfere anni ’90, passando per Beautiful Gun, omaggio alle sue primordi punk pre Yazoo, fino a The Rarest Bird, forse la performance vocale più incredibile dell’album, dove le nostalgie anni ’60 filtrano con il contemporaneo, la cantautrice britannica dimostra di saper spaziare dal sinfonico alla ballad notturna. Arrivando perfino a sperimentare con il recitativo, 10th April, ripescando le sue origini teatrali senza concedersi mai alle lusinghe del pop orecchiabile degli esordi.