Il mondo politico europeo è ancora scosso dall’indagine giornalistica di Luxleaks che ha rivelato come centinaia di aziende europee spostino i loro profitti nel piccolo Stato per non pagare tasse, il tutto con la piena complicità delle autorità locali e delle grandi aziende di revisione contabile. Un paradiso fiscale dentro l’Unione europea e l’area euro, noto a tutti da decenni, ma che ha continuato a vivere indisturbato a vantaggio dei pochi ricchi europei, che in questo modo non dovevano neanche prendersi il disturbo di raggiungere altri paradisi nei Caraibi o in Asia. Giustamente politici di vario orientamento e paesi hanno subito rivolto la loro attenzione a Claude Juncker, il nuovo presidente della Commissione europea, che da primo ministro dello staterello «canaglia» ha sempre saputo bene come incentivare questo aggiramento delle tasse. Come chiosato dal sottosegretario agli affari europei della Presidenza del consiglio in un tweet, «Rispetteremo il Fiscal Compact quando Lussemburgo smetterà di essere paradiso fiscale sottraendoci entrate».

Come altri scandali emersi negli ultimi anni, anche questa volta è forte il rischio che si affoghi nella solita melassa delle dinamiche europee. Dietro le quinte le resistenze a una vera azione concertata contro l’evasione e l’elusione fiscale non vengono solo da Lussemburgo. Negli ultimi due anni l’Ocse ha analizzato e proposto una via di uscita contro l’erosione dell’imponibile e lo spostamento dei profitti da parte delle grandi multinazionali, per arrestare questo cancro dell’economia mondiale che gli inglesi chiamano tax dodging. Un gruppo di misure che dovrebbero cambiare numerose normative nei singoli paesi per rendere più dura la vita alle imprese che cercano rifugio nei paradisi fiscali, dal momento che sanzionare e marginalizzare queste giurisdizioni non è stato così facile fino a oggi. Il risultato più importante è stata l’adozione di uno standard globale per uno scambio automatico di informazioni tra le autorità dei vari paesi, che dovrebbe far cadere di fatto il segreto bancario e societario.

In parallelo l’Unione europea ha già cambiato e sta aggiornando diverse legislazioni. Soprattutto due misure sono oggi al centro del conflitto più aspro tra i paesi europei e dal risultato di questo dipenderà se si volta davvero pagina, oppure si continua con il business as usual. Nell’ambito del negoziato sulla revisione della direttiva contro il riciclaggio, Commissione, Parlamento e Consiglio europei – quest’ultimo guidato dalla Presidenza di turno italiana dell’Ue – si confrontano sull’introduzione di registri pubblici centralizzati dei veri proprietari delle imprese, di fondazioni e trust. Può sembrare ovvio che i governi e i cittadini debbano conoscere chi possiede un’impresa, ma così non è ancora in molti paesi europei – a differenza dell’Italia, dove un registro pubblico è operativo dal 1996. Chi oggi resiste alla creazione di registri pubblici non è la solita Gran Bretagna – piegata dal peso degli scandali Starbucks, Google e Amazon – ma principalmente le «civilissime» Germania, Olanda e Svezia. Coloro che ogni giorno danno lezioni al resto dei paesi europei sul loro integerrimo e trasparente approccio all’austerità e al rigore nei conti pubblici. La Presidenza italiana nell’oscurità del negoziato del «trilogo» si trova quindi a doversi confrontare le assurde rimostranze di Berlino, resistendo insieme a Parigi, ma non sbraitando pubblicamente contro le assurde pretese teutoniche. Perché non si twitta anche contro la Merkel su un tema così ovvio? Ormai siamo al redde rationem ed entro fine mese si dovrebbe trovare un accordo. La Commissione europea sta promuovendo un approccio alternativo, ma il rischio è che i registri saranno centralizzati ma non pubblici, quando la pubblicazione sarebbe invece il vero deterrente per gli evasori.

La seconda questione che accende gli animi a Bruxelles è quella dell’obbligo per le multinazionali di presentare bilanci disaggregati per ogni paese in cui operano, rendendo pubblici i ricavi, i profitti prima delle tasse, le tasse pagate, le varie strutture societarie e le attività svolte. Solamente la pubblicazione di questi bilanci dettagliati permetterebbero di capire se le imprese pagano le tasse dove producono e svolgono le loro attività, o se spostano invece i profitti altrove tramite i ben noti paradisi fiscali. La nuova direttiva europea sulla contabilità ha previsto un obbligo del genere almeno per i pagamenti effettuati ai singoli governi dalle imprese del settore estrattivo e forestale. Ma resta da capire se nella trasposizione nelle leggi nazionali tali dati saranno resi pubblici – per esempio in Italia tramite il registro delle imprese. Ma, ancora più importante, la direttiva europea sui requisiti di capitale per le banche ha introdotto a sorpresa a partire dal prossimo anno tale obbligo per gli istituti di credito ed istituzioni finanziarie. Le lobby hanno cercato di convincere la Commissione europea che tale obbligo, e in particolare la pubblicazione dei dati, avrebbe generato una perdita di profitti.

Ma proprio la scorsa settimana la Commissione ha reso pubblico il suo studio di impatto che nega questo assunto. Anche in questo caso i singoli paesi dovranno trasporre la legge a livello nazionale. Ed è fondamentale che i dati siano resi pubblici.

Ciò che sorprende è che paesi europei insospettabili siano tra quelli che ancora resistono con forza a questa nuova misura. Questo è documentato nel rapporto annuale sulla fuga dei capitali in Europa, appena pubblicato dalla rete europea di Ong Eurodad. Un atto di accusa che mostra come il problema non sia solo a Lussemburgo, ma in gran parte dell’Europa.

*Re:Common