Lo spazio e il tempo, si sa, separano; e il lavoro di cucitura è lento; il filo non è mai chiaramente visibile quando entra nella trama. La letteratura, invece, sembra ancora desiderare e riuscire a svolgere questo compito. Così ha fatto Marco Balzano nel suo ultimo romanzo, Quando tornerò (Einaudi, pp. 201, euro 18,50), affidando la storia a una totale trasparenza. Sono tre le voci che il lettore potrà guardare con occhio nitido mentre ciascuna, una dopo l’altra, cuce la sua parte di verità.

PRIMA QUELLA DI UN RAGAZZO, inquieto e dolente per la partenza improvvisa della madre andata a cercare lavoro in un paese lontano, che si interrompe per un incidente sospetto. Poi quella della madre, in attesa del risveglio del figlio, che parlandogli nel silenzio del coma ricostruisce per lui, e per sé, i motivi e le conseguenze emotive di quella che a tutti era sembrata una fuga. Infine, la voce della figlia, lucida esecutrice di quel taglio tra generazioni che solo garantisce la costituzione di un patto sempre difficile da stipulare con chiarezza di clausole.

Le tre voci riescono miracolosamente a ricucire una trama aspra e cosparsa di insidiosi conflitti, piena di traumi, paure e ansie, piena di colpe e mancanze, piena di prepotenze e sopraffazioni, piena di tutto ciò che sempre si produce quando la sorte e il desiderio delle persone passano attraverso il denaro. Se la parola ormai non fosse diventata infelice, l’esito consolatorio con cui la storia si chiude potrebbe essere preso come esempio di resilienza individuale, o al limite di resilienza del microcosmo familiare; perché qui proprio si tratta di sopravvivere, sì, ma anche un po’ di trovare le forze per adattarsi al torchio della storia. Una prova del fatto che abbiamo fatto ingresso nell’era della resilienza e sappiamo apprezzarne le sfumature.

BALZANO è molto bravo a dare corpo alle voci che abitano le pagine di questo romanzo. E in fondo, per chi avesse letto il suo precedente racconto, Resto qui (Einaudi, 2018), non dovrebbe essere una sorpresa. Lì, a partire da una valle stretta tra le montagne in cui pezzi di civiltà venivano sommersi sotto il filo dell’acqua di un lago prodotto dallo sbarramento di una diga, si era trattato di dare la parola a chi non aveva potuto condurre da sé la voce verso uno spazio pubblico né aveva trovato chi se ne facesse portatore fino in fondo.

Così in questo nuovo romanzo, in cui l’autore solleva il velo di omertà e false narrazioni che copre il destino di donne che trascurano le proprie vite per prendersi cura di chi può offrire loro qualche denaro, si consegna finalmente la parola a chi non saprebbe neppure come prenderla né forse gli verrebbe in mente di chiederla. In entrambi i casi è stata un’impresa vincente, perché Balzano non si preoccupa di produrre una situazione mimetica del parlato, neppure della scrittura, neppure del pensiero.

PIENAMENTE, corposamente e generosamente regala ai suoi personaggi la sua stessa scrittura, consegna loro la possibilità di dire e di agire tramite il racconto perché possano finalmente dire tutto e senza filtri quel che gli passa per la mente, dire come vedono la propria vita, dire come sentono e come ricordano quel che gli capita. I personaggi diventano così padroni della scena e del suo corso, si muovono dentro uno spazio cristallino in cui il loro dramma può essere enunciato e scoperto.

Per riuscire a realizzare questa trasparenza, Balzano incrocia due azioni. Da una parte, costruisce la scena con un’impressionante quantità di dettagli che riguardano sia i corpi sia i gesti sia gli oggetti sia gli ambienti. La sua maniera di far percepire al lettore la prossimità dello spazio abitato dai personaggi narranti è davvero opera di cesellatura e certo non solo d’effetto decorativo; dentro questa minuzia passa la pastosità del reale e una certa porzione di autenticità.

L’ALTRA AZIONE è quella di prendersi la responsabilità di tradurre completamente e radicalmente il linguaggio dei suoi personaggi nel linguaggio suo proprio e nel linguaggio dei lettori; un compito non certo semplice né meccanico, che richiede una profonda immaginazione dell’idioma di origine e di destinazione. E infatti, in questa come nella precedente occasione di romanzo, Balzano ci tiene molto a precisare che dietro la libera stesura dell’intreccio discorsivo, con cui i suoi personaggi acquistano spessore e vita, c’è un lungo lavoro documentario, che gli permette un sottile e motivato accesso alla situazione romanzata.

Certamente, mostrare la polvere che la nostra coscienza sociale tende a nascondere sotto il tappeto è un lavoro ammirevole; e bisogna dare atto a Balzano che in queste due ultime occasioni ha centrato obiettivi solitamente opachi se non oscuri. Ed è anche vero che la sua strategia di rivestire di nostro linguaggio e di rendere familiare ciò che probabilmente ha un altro modo di esprimersi (fatta salva una certa naturalità dei sentimenti nulla vieta che si creino conflitto, astio e rancore) pone degli interrogativi molto seri sulle motivazioni del narrare e del leggere, implica una valutazione degli effetti, e delle eventuali distorsioni, che possono prodursi nei lettori e nelle lettrici quando in loro si suscitino indulgenza e consolazione e appagamento di emozioni e sentimenti.