L’invasione russa dell’Ucraina è una guerra di aggressione. Viola l’articolo 2 della Carta della Nazioni Unite che vieta non solo l’uso della forza, ma anche la sua minaccia. In quanto tale, costituisce il “crimine internazionale supremo”, come si esprime la sentenza del Tribunale di Norimberga fatta propria dall’Assemblea generale nel 1946. La legittimità della risposta dell’Ucraina si basa sul “diritto naturale di autotutela” previsto dall’art. 51. Tutto questo è senso comune in Occidente, ma alcuni di quelli che riaffermano questi principi sarebbero più credibili se in passato avessero condannato altri atti unilaterali di aggressione, dalla guerra della Nato alla Federazione Jugoslava nel 1999 all’invasione dell’Afghanistan nel 2001 e dell’Iraq nel 2003.

Siamo di fronte a una drammatica emergenza umanitaria. Ancora una volta, le armi più o meno “intelligenti” causano soprattutto morti civili e le città vengono distrutte. Si ipotizzano cinque milioni di profughi e occorre un’iniziativa straordinaria per garantire il diritto di asilo. Come sarebbe dovuto avvenire per altre emergenze, fino a quella recente delle masse di profughi respinti sul confine orientale dell’Unione europea.

Dai commenti sui media occidentali mainstream sembra di trovarsi di fronte ad una novità assoluta, a un’inedita rottura dell’ordine internazionale perpetrata da Putin. L’Unione europea e la stessa Svizzera approvano sanzioni, la Germania rilancia la spesa militare, molti Stati, fra cui l’Italia, inviano armi “letali”.

Il Consiglio di Sicurezza è impotente e non potrebbe essere diversamente: come la Santa Alleanza, le Nazioni Unite hanno una costituzione oligarchica, che prevede il diritto di veto dei membri permanenti fra cui la Russia. Ma un ulteriore segnale di novità è stata la convocazione di un’Assemblea generale straordinaria che ha duramente condannato l’intervento (pur con l’astensione di potenze come la Cina, L’India, l’Iran e di molti altri paesi africani).

L’interpretazione prevalente legge la guerra come un attacco delle democrazie autoritarie a quelle liberali, che vedono messi a repentaglio i propri valori e si uniscono per difenderli, cercando di esorcizzare l’incubo della guerra nucleare. In un clima di mobilitazione generale l’informazione è arruolata, le voci critiche sono catalogate di default nelle liste dei “putiniani” e si arriva e episodi grotteschi come il tentativo di impedire un corso universitario su Dostoevskij.

Di questi temi si è parlato in un seminario online, molto seguito, organizzato da Jura Gentim. Centro per la filosofia del diritto internazionale e della politica globale, dai centri Macrocrimes e Cssi dell’Università di Ferrara e dal Movimento nonviolento. Nella sua introduzione, Alessandro Colombo ha messo in questione queste interpretazioni. La guerra scatenata dalla Russia è il prodotto di una rottura dell’ordine internazionale che si è già consumata negli ultimi decenni, della quale l’incapacità di trattare il nemico sconfitto nella Guerra fredda è un capitolo decisivo. La clamorosa impotenza diplomatica che accomuna tutti gli attori si accompagna al cedimento del tessuto istituzionale della comunità globale. I confini fra guerra e pace sono divenuti sempre più indistinti in un processo di crescente militarizzazione delle relazioni internazionali.

Come per dar ragione a Carl Schmitt, sembra che solo contrapponendosi a un nemico l’Europa stia finalmente trovando una sua identità comune e si costituisca come un attore geopolitico unitario. In realtà siamo di fronte a un rilancio della Nato e a un deperimento dell’Ue, che rischia di smarrire i suoi principi costitutivi, a cominciare dall’ispirazione pacifista e dalla tutela universale dei diritti. La stessa risposta unitaria all’emergenza umanitaria consente ai paesi membri di discriminare fra Ucraini e profughi asiatici e africani, istituzionalizzando una prassi che si è già vista alle frontiere.

La normalizzazione della guerra e la ricerca di una legittimazione giuridica, intanto, hanno fatto scuola. La stessa Russia invoca il diritto all’autodifesa dell’art. 51 e la dottrina della “legittima difesa preventiva”, di grande successo nell’epoca della “Guerra globale al terrore” di George W. Bush, fornisce qualche argomento pretestuoso. Così come utilizza l’argomento dell’ “intervento umanitario” di fronte a un genocidio, echeggiando la narrazione a sostegno della guerra del 1999 per il Kosovo.

In effetti le analogie fra la crisi di oggi e quella del 1999 sono evidenti e inquietanti, con la differenza che Putin appare meno preoccupato dei presidenti americani di minimizzare, fino a ridurre a zero, le perdite delle sue truppe. Più difficile rispondere alla domanda se l’invasione dell’Ucraina segni il ritorno delle tradizionali guerre fra Stati sovrani combattute sul terreno, o esprima i caratteri della “guerra globale”, informatizzata, despazializzata e priva di termini temporali.

Al fondo, rimane l’antico intreccio fra geopolitica e motivazioni economico-finanziarie. Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara e presidente di Migrantes, ha sostenuto che si tratta di una guerra di capitalismo economico, scatenata da un’oligarchia economica che vuole espandere la sua area di controllo. E quando l’economia rende succube la politica, i diritti vengono meno.

* Docente di Filosofia del diritto, università di Camerino. Presidente di Jura Gentim. Centro per la filosofia del diritto internazionale e della politica global fondato da Danilo Zolo