“Il 21° secolo appartiene all’Africa”, è l’immagine proiettata da gigantografie che bombardano il viaggiatore appena arrivato all’eroporto di Addis Abeba. Cartelloni pubblicitari di famiglie etiopi sorridenti danno l’idea di un continente proiettato verso un futuro roseo e uno sviluppo inarrestabile che sembra non preoccuparsi delle crisi cicliche dell’economia mondiale. Negli ultimi sette anni la capitale è cresciuta demograficamente, con le forti migrazioni dalle campagne, ed economicamente, con indici di crescita che in alcuni periodi sono stati a doppia cifra. Ma, come spesso accade, ciò non ha portato a un miglioramento sostanziale delle condizioni di vita dell’intera popolazione (secondo Wikipedia il reddito pro-capite ancora si colloca al 168° posto).

Come ogni paese in ascesa, l’Etiopia ha voglia di dimostrare la propria crescita, e quale modo migliore se non la vetrina di una città in pieno sviluppo edilizio? E quale modello mettere in pratica se non quello di Dubai? Dopo gli Usa, i paesi del Golfo Persico e il Medio Oriente, dove le continue rivolte hanno ormai disincentivato ogni tipo di investimento, la speculazione edilizia sembra indirizzata verso altri confini,  verso sud.

L’Africa, e le sue infinite possibilità di sviluppo, è l’obiettivo naturale per erigere gli idoli di cemento da innalzare in onore del neocapitalismo che non trae alcun insegnamento dai propri errori. Il Modello Dubai sradica il tessuto storico-sociale che caratterizza una nazione. Se si guarda ai paesi nord africani del mondo arabo, il tipo di politiche di sviluppo messe in atto non ha portato i giovamenti economici sperati se non ad una ridotta minoranza della popolazione. Anzi, le sperequazioni sono aumentate, l’assistenza sanitaria inesistente o accessibile solo per pochi ricchi, l’istruzione fallimentare, la pensione un miraggio. Il Modello Dubai, che funziona solo nei Paesi del Golfo perché supportati dagli introiti del petrolio, sottintende l’adozione di un sistema di valori non solo economici, che prenetrano la società e le istituzioni statali, spazzando via qualsiasi teoria neokeynesiana.

Wrapped, incartati … verdi, blu, gialli, sono i colori con i quali vengono cellofanate le impalcature delle costruzione ad Addis Abeba. Interi rioni storici della capitale (Kazanchis, Merkato, il quartiere a ridosso della Greek School, Bole …) sono stati rasi completamente al suolo per far spazio a questi monumenti variopinti da scartare una volta terminati i lavori. Lo skyline della città sta cambiando radicalmente in tutte le zone, le nuove fabbricazioni si arrampicano addirittura ai piedi dei monti circostanti. Ogni area della città è un cantiere a cielo aperto. Il problema di fondo è il confuso piano di sviluppo urbanistico, che non stabilisce regole precise e rigide da seguire e rispettare. Il governo etiope ha assunto consulenti inglesi e cinesi per strutturare al meglio il piano regolatore, ma questi impongono politiche poco lineari con la realtà etiope e spesso con lo scopo di favorire le multinazionali straniere.

I nuovi edifici a specchio, con design di architetti cinesi e americani, riflettono il sole accecante dell’equatore aumentando di molto le temperature in città e rendendole insopportabili per i passanti. Per legge palazzi a sei/dieci piani si erigono nelle prime tre file a ridosso dei grandi boulevard che vengono costruiti per aiutare la viabilità, ma che tagliano a metà interi quartieri. Non ci sono parcheggi sulle nuove ampie strade perché lo Stato concede in costruzione spazi ristretti (normalmente 400 m2 quando un vecchio edificio viene raso al suolo). Così i costruttori ottimizzano la cubatura a disposizione costruendo quasi a ridosso del terreno limitrofo e riducendo al minimo la distanza tra le vie e i palazzi.

I nuovi stabili di cemento e vetro hanno parzialmente rimpiazzato le baraccopoli metropolitane ma senza rispettare la storia del territorio e lo stile africano di vivere in estensione più che in altezza. Il tipo di piano urbanistico impiegato, sradica completamente le regole di convivenza pacifiche tra il ricco e il povero che per quasi un secolo hanno caratterizzato la vita ad Addis Abeba, alimentando tensioni e delinquenza. Entrambi erano figure ben integrate nel quartiere, si conoscevano a vicenda permettendo quel controllo sociale che riduceva al minimo i casi di teppismo. Le disparità esistevano ma non erano così marcate. Spesso i meno fortunati/e andavano a lavorare nelle case delle famiglie più agiate come guardiani, giardinieri, portieri, donne delle pulizie. Oggi si assiste al sorgere di veri e propri compound per ricchi sparsi a macchia di leopardo nella città, dove ogni casa è recintata con filo spinato e con uomini di sorveglianza privati.

Tutto un modus vivendi è stato cancellato con lo smantellamento di molti quartieri. La gente è stata rilocata nei sobborghi periferici della capitale con indennizzi ridicoli, dove vivono in condomini e devono percorrere più di 50 km al giorno per andare a lavorare. Molte famiglie per far fronte alle spese condividono lo stesso appartamento e gli stessi bagni, a discapito di tutte le norme igeniche. Le tradizionali case etiopi sono a un solo livello, dotate di un forno esterno dove le donne cucinano a legna, a carbone o a kerosene! Riversare queste abitudini in uno spazio ridotto quale quello di un condominio è pericoloso sia per la salute che per la sicurezza.

Un altro modo del governo etiope per attrarre capitali stranieri è stato incentivare la voglia di molti espatriati a investire i propri risparmi nella terra d’origine. Ma la nuova borghesia etiope, soprattutto quella cresciuta in America, ha perso completamente gli stili di vita africani. Ciò è particolarmente evidente nella seconda e terza generazione che, al rientro in Etiopia, non ne conosce la storia e la cultura, rifiutandone persino la dieta culinaria, come il kitfo, carne macinata cruda speziata con berberé piccante, sostituito da hamburger abbrustoliti del McDonald. Questa perdita dell’eredità culturale fa credere all’emigrato di poter mettere in pratica una filosofia economica nuova, senza rendersi conto delle conseguenze negative e dell’impatto ambientale che può avere in un paese quale l’Etiopia. Ciò è particolarmente visibile nelle vicinanze della capitale, dove migliaia di ettari sono stati dati in concessione alle multinazionali pronte a investire nel paese. Alle porte di Addis Abeba si trovano fabbriche cinesi che si estendono per chilometri e chilometri quadrati. Ma non sono gli unici, anche olandesi, francesi, inglesi e russi puntano sul continente emergente e sulle normative molto accomodanti dei governi africani.

Il progresso deve andare avanti, ma non può esistere un modello universale valido per tutti e per tutte le aree geografiche del pianeta. Nessuno è contro il miglioramento delle condizioni di vita dell’essere umano, ma le ridondanti prediche per proteggere la cultura e la tradizione di un popolo vengono sempre lasciate inascoltate. L’Etiopia, come tutto il continente africano, si trova davanti ad una sfida che segnerà in maniera irreversibile il cammino del paese: quella di non seguire gli stessi errori commessi dai paesi industrializzati. Nel secolo scorso, spesso l’Occidente ha inseguito uno sviluppo insensato senza curarsi dello smantellamento urbano e della devastazione sociale e ambientale che poteva causare e di cui si pagano ancora le conseguenze. Sarà importante seguire un percorso che riesca a rispettare l’identità culturale del paese, anche se al momento ad Addis Abeba sembra accadere il contrario. Purtroppo è l’eredità del colonialismo. Per quanto gli stati africani se ne vogliano affrancare, non hanno altri modelli di riferimento se non quelli occidentali, con tutta una serie di errori che tristemente sembrano ripercorrere.

Forse la nuova generazione ha più prospettive di riuscire ad estirpare questo pesante retaggio, ma dovrà evitare di rompere troppo bruscamente con le tradizioni del passato, per non fare la fine della Cina, dove mangiare al McDonald è come andare a un ristorante di lusso!